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Parità retributiva: i numeri fanno tutta la differenza

Che cosa vuol dire (e che cosa non vuol dire) la trasparenza salariale per le imprese e per il raggiungimento di obiettivi di parità di genere?

Avv francesca pittau

In questo primo articolo della rubrica “Includere per Crescere” cerchiamo insieme di prevedere i principali impatti per le imprese della Direttiva (UE) 2023/970 nota come Pay Trasparency Directive. Entro il 7 giugno 2026 gli Stati membri dovranno infatti recepire la normativa: questa data si avvicina ed è tempo di cominciare ad agire. 

Qualche numero sulla parità salariale

La parità di retribuzione per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore è un principio fondante dell’Unione Europea a cui gli Stati Membri si sono impegnati ormai da diversi decenni. 

Ciononostante, in Europa la parità salariale è ancora lontana.

Solo in Lussemburgo il gap retributivo tra uomini e donne è stato colmato: la media europea è del 13% (nel 2023), quindi per ogni euro guadagnato da un uomo, una donna guadagna 0,87 centesimi. 

Dietro ai dati medi, lo scenario è più complesso. Sebbene più donne concludano il ciclo di istruzione superiore, sono meno rappresentate nel mondo del lavoro: in Europa il 70% delle donne è occupato, contro l’81% degli uomini, in Italia il divario è di quasi 20 punti.

Il divario salariale cresce con l’aumentare dell’età e, contestualmente, diminuisce il tasso di partecipazione, soprattutto per via delle interruzioni di carriera determinate dall’ineguale distribuzione delle responsabilità di cura. Le donne svolgono in media 3-4 ore al giorno di lavoro non retribuito, contro 1-2 degli uomini, il che comporta una minore disponibilità al lavoro retribuito. 

Il part-time in Europa riguarda il 30% delle donne e solo l’8% degli uomini, inoltre le donne sono la stragrande maggioranza della forza lavoro in settori tradizionalmente a bassa retribuzione come istruzione, sanità e sociale. 

Le donne in Europa coprono il 34,7% delle posizioni manageriali, con un gap retributivo del 23%. 

La trasparenza retributiva come antidoto alla disparità

Il presupposto della direttiva è semplice: la mancanza di trasparenza salariale permette a discriminazioni e pregiudizi di rimanere nascosti e rende difficile per i lavoratori e le lavoratrici provare la disparità.

Un fenomeno, inoltre, per essere affrontato, va misurato, in quanto resta sotto traccia visto che si perpetra su bias cognitivi di insidiosa sottovalutazione del lavoro femminile.

Informazione e numeri, ossia:

  • i candidati dovranno essere edotti sulla retribuzione iniziale e sulla fascia da attribuire alla stessa, con criteri oggetti e neutri sotto il profilo del genere
  • i datori devono fornire dati su livelli retributivi, criteri e progressione
  • i lavoratori e le lavoratrici hanno diritto di ricevere informazioni sul loro livello individuale, su quelli medi, per sesso e per categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore, anche tramite i loro rappresentanti sindacali
  • i datori di lavoro che occupino da 100 dipendenti in su dovranno fornire informazioni su divario di genere, anche nelle componenti complementari e variabili, dati mediani, percentuale per genere di lavoratori che ricevono componenti complementari e variabile, definizione dei quartili retributivi per categorie di lavoratori.

Se il divario in una qualsiasi categoria è superiore al 5% scatta una valutazione congiunta con i rappresentanti dei lavoratori, se tale divario non è stato motivato secondo criteri oggettivi e neutri rispetto al genere (competenze, impegno, responsabilità, condizioni di lavoro) o non è stato corretto entro sei mesi.

La valutazione congiunta è estremamente pervasiva e si interroga sui sistemi di valutazione classificazione, che diventano la priorità nell’approcciare la materia.

Inutile dire che sono previste sanzioni in caso di inadempimento.

Cosa devono fare gli HR?

Con l’avvicinarsi dell’entrata in vigore della normativa, l’ipotesi di una revisione non programmata in aumento del costo del lavoro per correggere le storture della disparità salariale non appare uno scenario auspicabile.

Se, dunque, i numeri non mentono, non resta che verificarli.

Queste le mosse:

    1. Identificare la retribuzione: non solo le componenti fisse, ma anche le componenti complementari e quelle variabili, per ogni vantaggio un numero. Questo significa pesare i benefit tradizionali, i servizi (es. assicurazioni, piani di welfare) e gli strumenti “partecipativi”, come le stock option;
    2. Creare i cluster: non basterà dire che abbiamo tutti ruoli “unici”, ma ci si dovrà basare su criteri di natura organizzativa per comprendere se un’area aziendale è paragonabile ad un’altra. I criteri possono essere correlati alla classificazione contrattuale, alla dinamica organizzativa (job title, job family, tier, band), al numero di riporti, all’esistenza di poteri di disposizione, etc. Chi ha già un sistema di classificazione interno trasversale ovviamente parte agevolato in quanto un sistema coerente dovrebbe già evidenziare i “control factors”, ossia quei criteri oggettivi e neutri che consentono di distinguere fra differenze legittime e differenze discriminatorie; 
    3. I numeri: la Direttiva ci dice chiaramente quali numeri dobbiamo esporre: percentuali, media, mediana e distinzione in quartili che consentono di pervenire ad una prima definizione, il c.d. unadjusted pay gap;
  • Comprendere il divario: se c’è, capire se i fattori che lo hanno determinato sono legittimi o meno. Il metodo più utilizzato è quello della regressione, che consente di raggiungere il c.d. adjusted pay gap;
  1. Agire: se il divario c’è, servono azioni. È chiaro che non è (quasi mai) una opzione la diminuzione dei diritti patrimoniali di coloro che si trovano avvantaggiati dalla discriminazione; dunque, si dovrà programmare un adeguamento per gli altri.

Il check-up è l’azione più immediata così come l’individuazione di orizzonti temporali per la correzione di eventuali deviazioni e per l’evitare il loro ripetersi.

Ciò a partire dall’assunzione: per chi non la ha, è necessaria una policy che consenta di soppesare i candidati rispetto ai ruoli su criteri predeterminati e che regoli le offerte lavorative.

Stesso dicasi per le progressioni di carriera, che necessiteranno di procedure guidate: corretto considerare, ad esempio, l’impegno ma attenzione se questo, in ultimo, è solo una variabile semantica del tempo dedicato al lavoro, specialmente se il discrimine è dato dall’utilizzo di istituti legittimi (come i permessi correlati alla cura) statisticamente più utilizzati dalle donne.

Che cosa “non è” la norma sulla trasparenza retributiva

La norma sulla trasparenza retributiva non è una norma che si occupa di “quote”: sebbene tra i dati ci siano quelli comparati di rappresentatività per genere per categoria, la norma non impone obblighi di assunzione di genere.

La norma, inoltre, non sancisce la fine della negoziazione salariale o della “capacità” dei candidati di meglio posizionarsi sul mercato: semplicemente fa in modo che la trattativa sia informata e trasparente. 

Ad esempio, non siano affrontati nella disciplina aspetti contrattuali/normativi che possono essere oggetto di trattativa e attribuire un vantaggio: si pensi ai c.d. golden parachute, ai patti di non concorrenza, di stabilità, al periodo di prova (o alla sua non applicazione). 

Last but not least: è vero che l’equità determina ricchezza?

Si, l’equità determina ricchezza. Si stima che una riduzione del divario di genere del 1% in Europa comporterebbe un PIL del +0,1% per effetto dell’aumento della base imponibile e per l’alleggerimento sui sistemi previdenziali.

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