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Burnout e quiet quitting: riconoscerli e prevenirli con l’assessment continuo

Negli ultimi anni, burnout e quiet quitting sono diventati parte integrante del vocabolario del mondo del lavoro, segnalando una progressiva disconnessione tra la persona e il contesto lavorativo. Pur essendo fenomeni diversi, hanno una radice comune: una rottura nella relazione tra persona e azienda, spesso legata ad aspettative disattese

burnout

Come spiega Francesca Murdocco, PhD in Psicometria e ricercatrice presso PerformanSe, “il massimo del benessere al lavoro si realizza quando influisce positivamente anche sulla vita privata”. Ma questo equilibrio può rompersi, per diverse ragioni: problemi economici aziendali, leadership inefficace, fattori personali. Quando il benessere si deteriora, spesso il primo segnale è il quiet quitting.

Il quiet quitting è un progressivo disimpegno: le persone smettono di fare il “di più” e si limitano al minimo contrattuale. Secondo un sondaggio Microsoft (2023) condotto in 31 Paesi, tra cui l’Italia, il 48% dei lavoratori si riconosce in questo fenomeno.

Il burnout rappresenta la fase più acuta del malessere. Si manifesta con esaurimento emotivo, cinismo e ridotta efficacia professionale. Uno studio dell’Organizzazione mondiale della Sanità lo riconosce come sindrome legata allo stress cronico, mentre Gallup riporta che il 76% dei lavoratori si sente stressato almeno una volta a settimana.

Il contratto psicologico: una leva invisibile ma potente

Alla base di questi fenomeni c’è spesso un contratto psicologico non rispettato: le aspettative – tacite e non scritte – tra azienda e collaboratore non coincidono più. Francesca Murdocco osserva che “quando una persona si aspettava A e vive B, entra in uno stato di transizione, una sorta di standby che può degenerare in burnout o in dimissioni vere e proprie”.

Gli studi di PerformanSe hanno identificato un pattern ricorrente nei casi di quiet quitting: spesso si tratta di collaboratori che credevano nei valori aziendali, ma si sono ritrovati disillusi. Da qui nasce un atteggiamento di transizione, in cui il lavoro diventa solo uno scambio di tempo per retribuzione.

I segnali da non ignorare

Tra i campanelli d’allarme di quiet quitting e burn out:

  • isolamento e distacco emotivo
  • calo della produttività
  • irritabilità, apatia
  • aumento dell’assenteismo
  • mancanza di interesse per la crescita professionale

In presenza di questi segnali, l’azienda non può girare la testa dall’altra parte.

La prevenzione passa dall’assessment continuo

Secondo Francesca Murdocco, è fondamentale “fare un check-up organizzativo, proprio come si fa con la salute personale”. Ed è qui che entra in gioco l’assessment continuo: strumenti scientificamente validati come Echo e Idoneo aiutano a monitorare in tempo reale l’engagement, la motivazione e le aspettative dei collaboratori.

“L’assessment ci dice non solo che c’è un problema, ma anche dove possiamo intervenire” – spiega – “se il contratto psicologico è in crisi, lo strumento ci aiuta a rinegoziarlo, prima che sia troppo tardi”.

Utilizzati anche in fase preventiva, questi strumenti consentono di individuare i primi segnali, mappare il clima aziendale, misurare la corrispondenza tra valori individuali e aziendali e valutare l’evoluzione nel tempo.

Una cultura aziendale più attenta all’individuo

Per Francesca Murdocco, il valore aggiunto sta nell’unione tra rigore scientifico e sensibilità umana. “Grazie all’AI e a un lavoro continuo di aggiornamento e validazione, oggi possiamo restituire alle aziende insight accurati e azionabili. Ma serve anche l’esperienza dei coach e dei formatori per tradurre i dati in strategie concrete”.

Quando il benessere organizzativo è monitorato con costanza e attenzione, l’azienda diventa capace di ascoltare, correggere la rotta e crescere. Prevenendo burnout e quiet quitting, non solo si trattengono i talenti: si costruisce un contesto dove le persone possono davvero fiorire.

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