A tu per tu con le Top HR Women: Amelia Parente

Capita sempre più spesso di trovare una donna ai massimi vertici della funzione Risorse umane, mentre più difficile sembra il passaggio ad altri ruoli dirigenziali. Qualche volta però le cose vanno diversamente, e la carica di Human Resources Director diventa uno snodo verso altre prospettive. È il caso di Amelia Parente, che – dopo aver ricoperto per anni il ruolo di HRD in Roche – nel febbraio di quest’anno è diventata Rare Conditions, Government Affairs & Transformation Director della multinazionale farmaceutica.

Amelia-Parente

Capita sempre più spesso, nelle Risorse Umane, di trovare una donna ai massimi vertici della funzione. Sono le Top Hr Women. Tuttavia, il passaggio ad altri ruoli dirigenziali sembra più difficile. Come se la carica di Human Resources Director fosse considerata un punto di approdo per una donna, invece che uno snodo di passaggio, come spesso accade per i colleghi uomini. Qualche volta però le cose vanno diversamente. È il caso di Amelia Parente, che – dopo aver ricoperto per anni il ruolo di HRD in Roche – nel febbraio di quest’anno è diventata Rare Conditions, Government Affairs & Transformation Director della multinazionale farmaceutica.

Come è iniziata la sua carriera? Nel momento del suo primo colloquio, aveva già ben chiara in mente la strada che l’ha portata dove è oggi?

«A vent’anni la mia passione per le persone era già evidente, insieme a quella per le sfide organizzative. Per questo motivo mi sono laureata in Economia aziendale con una tesi sulla leadership femminile e più precisamente sulla correlazione tra fattori stressogeni di genere e job performance, per specializzarmi poi in Gestione delle risorse umane e organizzazione. Ho lasciato la carriera accademica che avevo iniziato per entrare in azienda – sono da circa 25 anni nel pharma – e ho avuto l’opportunità di lavorare per diverse multinazionali, spesso negli headquarter all’estero, dagli Stati Uniti alla Svizzera, alla Gran Bretagna, confrontandomi con matrici culturali differenti e ricoprendo incarichi internazionali legati all’ambito HR & Communication ma perlopiù votati alla trasformazione organizzativa, ovvero a riprogettare il modello operativo e di business e a contribuire alla generazione e al consolidamento di una cultura d’impresa centrata sulla leadership creativa e sull’empowerment delle persone».

 Quale porta avrebbe voluto aprire? Quale si è pentita di aver aperto?

«La “sliding door” più importante della mia carriera è stata senza dubbio la decisione di lasciare il mondo accademico per entrare in azienda, dove regna maggior concretezza e più pragmatismo; devo ammettere, tuttavia, che a volte mi manca la componente concettuale e mi chiedo cosa sarebbe successo se fossi rimasta in ambito accademico. Sono però soddisfatta di ogni scelta che ho fatto, perché ognuna mi ha consentito di fare esperienze importanti, di apprendere qualcosa di nuovo e di tessere nuove relazioni».

Nonostante i passi compiuti in ottica di diversity, in Italia il numero di donne in posizioni apicali d’impresa è ancora basso. Il fatto di essere donna l’ha ostacolata nel suo percorso? Le cose stanno cambiando abbastanza velocemente rispetto a qualche anno fa, o la strada da compiere è ancora lunga? 

«Per quanto mi riguarda, in realtà non ho mai avuto la sensazione che il genere fosse un fattore predittivo di successo o di insuccesso. Tuttavia sono consapevole che la nostra cultura è permeata da pregiudizi millenari che non riusciremo a scardinare solo parlandone: ho provato a fare un elenco di pensatori che, attraverso i secoli, si sono espressi sulla subalternità della donna e, ahimé, sono riuscita a trovarne almeno uno per ogni lettera dell’alfabeto!
La presa di coscienza e il parlarne sono comunque i primi, fondamentali, passi, ma la strada è ancora lunga perché la donna si liberi da certi stereotipi che le attribuiscono determinate caratteristiche e, come conseguenza, certi specifici compiti sociali e incarichi lavorativi. Come se non bastasse, la stereotipizzazione porta anche all’autoattribuzione di caratteristiche intrinseche legate al genere, per cui sono le donne stesse ad avere la tendenza a pensarsi in certi ruoli, a considerare per esempio l’ambito delle HR come la loro comfort zone, mentre ancora desta stupore vedere una donna rivestire certe cariche, dall’ingegnere all’Ad; inutile dire che tutto questo influenza il percorso lavorativo della donna e incide sulla sua predisposizione».

Nonostante la sua esperienza vada in direzione contraria, ha la sensazione che a volte le HRD donna restino bloccate in quel ruolo, a differenza dei colleghi uomini?

«A dire il vero, vedo una certa tendenza all’orizzontalità della carriera, che sta diventando più fluida, con una certa rivalutazione delle soft skill, ovvero di quelle competenze trasversali che stanno diventando sempre più importanti nel mondo del lavoro, sempre più ipersettoriale. L’HRD è oggi una “buona business person con una people expertise”: deve saper capire il business per poter essere in sintonia con le persone che deve attivare. Per questo motivo le competenze verticali – le ipercompentenze – devono sommarsi a quelle orizzontali, dal pensiero sistemico all’inclusività».

Qual è la dote più importante di un HR manager (o di un manager in senso più ampio)? E il peggior nemico?

«Come ho detto, è fondamentale il mindset: oggi l’HR deve essere un “business partner” in grado di capire i bisogni e le dinamiche aziendali e di supportare l’evoluzione del business. Questo si traduce nella capacità di saper coagulare le persone intorno a un obiettivo collettivo e motivante, ma anche di saper anticipare le logiche trasformative attraverso delle strutture organizzative che siano agili e contemporanee. Non solo. L’HR manager deve saper cogliere la grande sfida di far evolvere le persone e le loro capability.

Il peggior nemico? Il potere, senza dubbio! O meglio, la logica medievale di conservazione e non condivisione delle informazioni, che porta a una gestione individualistica del potere, che era poi quella dell’HR director vecchio stile. Oggi una gestione autocratica non è più possibile».

Conta più la formazione o l’esperienza sul campo?

«Tutte e due: un mix di entrambe crea il giusto connubio, anche se, forse, andando avanti l’esperienza assume un ruolo preponderante; è impensabile comunque non tener conto della formazione: nella nostra realtà è necessario un update continuo per contrastare la veloce obsolescenza delle competenze. Io stessa non ho mai smesso di studiare!».

Qual è oggi la sfida professionale più grande per chi si occupa di HR, a suo parere?

«Sicuramente la capacità di coagulare gli interessi delle persone con l’interesse aziendale condiviso in un mondo in cui le competenze evolvono velocissime».

Quale consiglio darebbe a un giovane che voglia intraprendere questa carriera?

«Di studiare il business e le sue dinamiche: fare l’HR non è indipendente dal business. E poi di studiare e leggere tanto e di tutto: il sapere è fluido e aiuta la creatività e la capacità di muoversi in campi diversi. E infine, di fare quante più esperienze possibili in ambiti differenti, magari iniziando in qualche specialistica del ruolo – come il diritto del lavoro, la compensation, ecc. – per passare poi alle generalistiche: solo dopo aver sperimentato alcune aree verticali si è pronti per quelle orizzontali».

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