Diversità e lavoro, il 26% della comunità LGBT+ dichiara di essere discriminata in ambiente professionale

Ancora oggi l’orientamento sessuale può essere fonte di discriminazione, anche sul lavoro. Lo rileva un’indagine Istat-Unar, che rivela come per un omosessuale/bisessuale su cinque l’orientamento sessuale abbia influito negativamente su aspetti come retribuzione, avanzamenti di carriera e riconoscimento delle capacità professionali.

discriminazione LGBT

Ha coinvolto oltre 21mila persone l’indagine svolta a cavallo tra il 2020 e il 2021 da Istat e Unar (l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) volta a misurare le discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+; il campione preso in esame, benché vasto, è rappresentativo di una porzione specifica del mondo omosessuale, bisessuale e transgender, ovvero di chi ha voluto avvalersi degli strumenti forniti dalla legge – l’unione civile – per vedere riconosciuta legalmente la propria condizione di coppia.

Nel dettaglio, il campione – quasi tutto di cittadini italiani e con una maggioranza di uomini (66,9%) e una quota importante in età matura (il 43,6% ha dai 50 anni in su) – è formato per il 65,2% da gay, per il 28,9% da lesbiche, per il 4,2% da donne bisessuali e per l’1,7% da uomini bisessuali; e ancora: il 38,8% del campione è laureato, il 77% è occupato (il 22,5% lo è stato in passato) mostrando quindi una buona partecipazione al mondo del lavoro, con l’occupazione dipendente con un contratto a tempo indeterminato, perlopiù nel terziario come modalità più diffusa, soprattutto tra le donne.

I dati della discriminazione

Importante la percentuale degli intervistati che ha affermato di non essersi presentata a un colloquio per timore che l’ambiente di lavoro potesse essere ostile al suo orientamento sessuale: il 12,5%, mentre circa il doppio, il 26% per l’esattezza – ovvero una persona su cinque – asserisce che il proprio orientamento sessuale abbia costituito un ostacolo sul lavoro, soprattutto nell’ottica della carriera, del riconoscimento delle proprie capacità e dell’incremento retributivo; di contro, la nota positiva è che il 92,5% del campione ha reso noto il proprio orientamento sessuale almeno a una parte dei colleghi (l’84,5% almeno ai pari grado), con il rischio, però, di episodi di outing (ovvero il disvelamento dell’orientamento sessuale da parte dei colleghi a terzi senza il consenso dell’interessato), avvenuti in un caso su tre.

Il dettaglio dei dipendenti

Tra i lavoratori dipendenti o ex-dipendenti, lo svantaggio legato al proprio orientamento sessuale, si riduce all’aumentare degli anni di lavoro svolti nel medesimo posto ma il 40,3% dei rispondenti afferma di ave evitato di parlare di vita privata sul lavoro per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale – l’incidenza è lievemente maggiore tra le donne: 41,1% contro il 38,1% degli uomini – e per lo stesso motivo una persona su cinque evita di frequentare i colleghi nel tempo libero mentre il 12,7% evita di partecipare a eventi aziendali.

In fasi di accesso al lavoro, una persona su tre dichiara di aver vissuto episodi discriminatori, come pure il 34,5% dei dipendenti o ex-dipendenti intervistati – percentuale che sale al 40,1% per chi ha un’occupazione a termine –. Tra le situazioni di discriminazione, il 48,8% dei dipendenti (e il 50,9% degli ex-dipendenti) riporta di non aver ricevuto le promozioni e gli avanzamenti di carriera, gli aumenti di stipendio o i premi che meritava mentre il 47% dei dipendenti (e il 54,2% degli ex) afferma di aver visto le proprie capacità sminuite o valutate negativamente dai superiori, dai colleghi di pari grado o di livello inferiore.

Le (micro)-aggressioni: numeri ancora troppo alti

Preoccupante è il fenomeno delle micro-aggressioni sul posto di lavoro legate all’orientamento sessuale: il 61,8% degli intervistati – ovvero sei persone su dieci – riporta di aver subito almeno un episodio di questo genere nell’attuale/ultimo posto di lavoro – utilizzo di un linguaggio offensivo o dispregiativo (nove casi su dieci), azioni d scherno (17,3%), avance sessuali non gradite (13,8%), domande sulla vita sessuale (38,7%) sono gli episodi più frequenti –. Il 57,2% di chi ha subito almeno una micro-aggressione sul lavoro riporta che i responsabili di tali episodi sono colleghi di pari grado; seguono poi, in percentuali minori, clienti, fornitori e consulenti. Nel 40,3% dei casi la persona non ha fatto nulla in risposta all’accaduto mentre il 28,2% si è confrontato con il responsabile e il 6,9% ha pensato seriamente di abbandonare il lavoro mentre solo il 2,5% lo ha lasciato; il 17,4% di chi ha subito discriminazione nell’attuale/ultimo lavoro dipendente ha intrapreso una qualche azione (legale, di conciliazione sindacale, ne ha parlato con i responsabili, ha chiesto che venissero presi provvedimenti nei confronti dei responsabili, ha cambiato lavoro/ufficio/mansioni o altro tipo di azione).

Per quanto riguarda invece il clima ostile e le aggressioni vere e proprie, è il 20,8% degli intervistati ad averli subiti nell’attuale/ultimo posto di lavoro, con calunnia e scherzi pesanti al primo posto (45,9%), seguiti da umiliazioni e parolacce (43%), esclusione da riunioni e conversazioni (35%) e privazione totali di compiti da svolgere (13,2%), con un allarmante 5,3% che dichiara di essere stato aggredito fisicamente.

 Le possibili soluzioni

Il 71,7% degli intervistati pensa che una campagna di sensibilizzazione sulle diversità LGBT+ da parte delle istituzioni potrebbe favorire l’inclusione mentre il 52,6% auspica interventi legislativi (con l’introduzione di leggi più severe per i reati omofobi e transfobici) e il 44,6% azioni da parte dell’Unione Europea o di organi sovrannazionali; solo il 26,2% spera in interventi da parte degli organismi di tutela e parità preposti.

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