«Empowerment e coraggio: le donne devono osare ma anche essere supportate»

Orietta Campironi, Cio di Ignazio Messina, riflette su un’idea di leadership che abbia caratteristiche universali in grado di portare valore alle organizzazioni e in cui il genere non costituisca un ostacolo.

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«Ci sono buoni segnali ma c’è ancora molta strada da fare, su vari fronti, per la parità di opportunità; le ragazze talentuose vanno supportate e non devono temere di uscire dalla comfort zone». Prosegue con Orietta Campironi, CIO di Ignazio Messina & C., il viaggio di riflessione sull’esistenza e le caratteristiche della leadership al femminile.

Ingegner Campironi, crede che si possa parlare di leadership al femminile?

Più che di esistenza di una leadership al femminile o al maschile, parlerei di necessità di una nuova leadership, o meglio, di evoluzione del suo stile e delle caratteristiche fondamentali per una leadership di successo. Occorre differenziarsi da vecchi modelli – come quello del comando e controllo – non più credibili, e pensare a una leadership moderna, a stili più sfaccettati, più poliedrici, in grado di cavalcare il cambiamento, di dominarne la complessità, di guardare oltre i confini e di guidare l’innovazione. Abbiamo bisogno di una leadership che sia in grado di creare una visione strategica, facendo leva sull’ascolto, sulla collaborazione, cogliendo idee dalla diversità. In questo modo si ispira il team, lo si ingaggia, con il buon esempio, dando e ricevendo fiducia. In questi stili di leadership emergono caratteristiche significative che valorizzano la presenza della diversità all’interno dell’organizzazione come elemento abilitatore di valore e innovazione. Già da vari anni studi specializzati in leadership management hanno dimostrato come all’interno di gruppi misti la diversità porti a un miglioramento nel processo decisionale e come le organizzazioni dove la diversità viene riconosciuta abbiano risultati globalmente migliori.

Quindi lei preferisce riflettere sull’idea che un modello di leadership moderno parta inevitabilmente da comportamenti diversi rispetto al passato, utili tanto per gli uomini che per le donne leader?

Sì, da comportamenti e da caratteristiche che gli esperti hanno osservato essere più frequentemente presenti nelle donne e che vanno valorizzati tra uomini e donne, al di là del genere, perché vincenti. Credo che non abbia senso dibattere in termini antagonistici di gender leadership, ma semmai dare spazio e valore a quei modelli che sostengono la diversità e l’inclusività, riconoscendone il punto di forza, e che ci portano ad avere leader di successo che generino team ad alto potenziale e trasmettano loro valori e visione.

Ritiene, quindi, che si tratti di caratteristiche in qualche modo universali…

Certo, e da condividere. È chiaro che la presenza femminile in un’organizzazione gioca un ruolo fondamentale in questo senso per l’impatto sul lavoro di squadra e sulla crescita personale, ed emerge chiaramente che le organizzazioni con una significativa presenza femminile nelle posizioni di leadership raggiungono risultati decisamente migliori; per questo dare valore e spazio a questa rappresentatività è fondamentale.

Crede che questa trasformazione sia stata stimolata da una diversità che si è imposta nelle organizzazioni in modo più incisivo?

Sì, perché i molti casi in cui si è riusciti a dare maggior spazio alla diversità hanno dimostrato che sono stati apportati valori importantissimi, a vantaggio di crescita, innovazione e sostenibilità, rivelando che la diversità è una priorità di business e concorre al successo di un’organizzazione. Quindi diamo spazio alla diversità di ogni tipo, non solo a quella di genere.

Nota una differenza di approcci da parte delle nuove leve? Cosa si aspettano da un leader le nuove generazioni?

Si aspettano ascolto, empatia, coraggio, capacità di comunicare. Il fatto che oggi la forza lavoro sia composta da individui che appartengono a diverse generazioni comporta che lo stile di leadership debba essere modulato, per poter incontrare aspirazioni, necessità e valori diversi. Quindi occorre un leader che tenga conto delle pluralità e che sia nel contempo trasformazionale – in grado di infondere attenzione, visione e supporto – e transazionale, ovvero capace di facilitare una maggiore integrazione all’interno dei team, riconoscendone impegno e performance.

La pluralità anagrafica è a sua volta una diversità che arricchisce…

Certo, si tratta di modi diversi di comunicare, ma anche di modalità di lavoro diverse; lo si osserva ad esempio nell’ambito tecnologico. I più giovani sono più abili nell’utilizzare la tecnologia, ma occorre che aggiungano maggior spirito critico e che non ne siano dei soli fruitori. Importante è favorire e indirizzare un giusto mix che consenta di ricavare risultati costruttivi dal confronto di valori, atteggiamenti, convinzioni e aspirazioni diverse, sviluppando skill emotive e favorendo la comunicazione con e nel team.

Come vede il dibattito sugli stereotipi di genere e sulle quote rosa? Possono essere leve per agevolare un processo o sono forzature?

La questione di genere dovrebbe sparire dal dibattito della leadership, e dovremmo giungere ad avere pari opportunità e a poter essere valutati in base al merito. Se il merito fosse il principio guida non ci scontreremmo con il gender gap.

Oggi purtroppo non siamo ancora in questa situazione, sebbene ci siano segnali positivi e su scala mondiale le donne detengano il 31% delle posizioni di leadership – dato del 2021; risultato importante, perché il 30% era stato definito come l’obiettivo minimo per poter portare un contributo al cambiamento dei processi decisionali nell’ambito delle organizzazioni. Un traguardo significativo dunque, ma non ancora quello finale atteso. In quest’ottica, se le quote rose servono a compensare discriminazioni, stereotipi di genere e alcuni svantaggi a cui le donne vanno incontro, ben vengano, sono certamente utili per interrompere un circolo non virtuoso, per contribuire a una maggior sensibilizzazione e per far scoprire il valore di nuove figure femminili.  Considererei però le quote rosa un mezzo, transitorio; non devono essere il fine ultimo.

Occorrere invece continuare sempre di più a valorizzare i casi di successo perché diventino modelli positivi di riferimento, in grado di mostrare i risultati che lo sforzo di integrazione delle diversità porta nelle organizzazioni.

Ha degli esempi da fornire in merito?

Penserei a due cose. Intanto, facendo riferimento all’inclusività e alla presenza femminile, già oggi esistono organizzazioni – come la Ignazio Messina – in  cui la ricerca di talenti è genderless, organizzazioni che stanno costruendo così team misti e integrando culture, età e genere. Accade, tuttavia, che in settori specifici, non vi sia sufficiente offerta di “diversità” sul mercato in fase di recruitment: tra i profili tecnici, ad esempio, è ancora forte la prevalenza maschile. Quindi oltre a lavorare per superare stereotipi e pregiudizi di genere e per accrescere consapevolezza nel management, è necessario lavorare per diffondere già a livello di education la consapevolezza, ad esempio, che le discipline STEM sono attraenti per le ragazze e possono offrire interessanti opportunità, e che non esistono professioni da uomo o da donna.

In Ignazio Messina negli anni scorsi sono state reclutate al Terminal due operatrici polivalenti portuali che guidano camion e reach stacker e che si occupano del rizzaggio delle merci a bordo, ma non ne sono state trovate altre fino ad ora. Lo stesso si riscontra anche con il personale marittimo: cresce la presenza femminile tra gli ufficiali di coperta e di macchina ma non è ancora sufficientemente rappresentativa.

Ora poi è meno necessaria la forza fisica…

È vero, un tempo spesso poteva essere una condizione necessaria una certa forza fisica per alcune mansioni, ma oggi viene meno questo requisito discriminante, anche grazie alla automazione diffusa. Si tratta di ruoli per cui si deve sentire ambizione e passione, indipendentemente dal genere, ma il gender gap va colmato anche a livello di cultura. In questo senso bisogna far arrivare un forte messaggio di maggior consapevolezza alle ragazze, e poi anche sorreggerle.

La pandemia ha mostrato bene come le donne siano state vittime di una situazione che a livello di welfare non le ha supportate…

Sì, moltissime si sono fatte maggiormente carico della cura familiare, con un bilancio lavoro-vita privata di ancor più difficile gestione; certamente diversità e inclusione devono essere attributi intrinseci e autentici di tutte le politiche, non solo di quelle sociali, affinché siano consentite le medesime opportunità di accesso alla carriera ad ogni genere e tutti i talenti possano essere ugualmente supportati.

Infine, è necessario spingere molto anche sull’empowerment femminile. Nella mia esperienza professionale, in Italia e per un lungo periodo all’estero, ho lavorato con team multifunzionali, multietnici e multiculturali. Ho osservato comportamenti diversi e ho notato che spesso le donne si pongono delle auto-limitazioni. Devono invece uscire dalla comfort zone, osare, buttarsi. Spesso le ragazze aspettano, per timore, aspirando a una sorta di perfezione assoluta e completa prima di fare il passo decisivo.

Si limitano?

Talvolta hanno paura di sbagliare, di fallire; il fallimento è temuto, visto con preoccupazione e non come una opportunità per rimettersi in gioco, cambiare e migliorare. Le opportunità vanno cercate e accolte. Occorre essere determinate, senza aspettare troppo a spiccare il volo, e serve sviluppare la consapevolezza che il talento, la tenacia, le competenze e la passione consentono di superare anche gli ostacoli extra.

È una questione di mindset, occorrerebbe pensare “Sono pronta, esco dalla mia comfort zone, seguo le mie passioni, punto sulle mie forze, sui miei talenti, sulle mie caratteristiche e sull’apprendimento che non si interromperà mai durante tutto il percorso professionale”.

C’è una motivazione culturale sottesa a questo atteggiamento?

Una cosa è certa: spesso ancora vale il concetto del double standard quando alle donne viene chiesto “il miglio supplementare” perché venga loro offerta la stessa opportunità che ai colleghi uomini. Non sempre è così, ma succede.

Io ho avuto la fortuna di crescere in organizzazioni meritocratiche che pur in contesti prevalentemente maschili hanno però dato il giusto riconoscimento a risultati, competenze e leadership. Si tratta di esempi organizzativi positivi che bisogna contribuire a diffondere.

È una specificità italiana quella a cui fa riferimento?

Ho studiato Ingegneria al Politecnico, quando la rappresentatività femminile era quasi inesistente, e così pure nella mia carriera lavorativa – in contesti sempre prevalentemente maschili – moltissime volte mi sono trovata a essere l’unica donna a un tavolo di soli uomini, dove però il valore e la preparazione venivano riconosciute. Da subito, in Italia e all’estero, sono stata esposta a culture e stili di leadership diversi e ho capito l’importanza per un leader di lavorare non solo su aspetti di performance e su competenze hard ma, soprattutto, su quelle soft. Ho appreso anche ad andare oltre, e a superare gli ostacoli di pregiudizi e stereotipi di genere. Nei vari settori lavorativi, sperimentando varie culture, ho sempre cercato di bilanciare e miscelare le mie caratteristiche e il mio stile di leadership in funzione dei contesti geografici e culturali in cui mi trovavo a operare, puntando sempre a sviluppare credibilità e autorevolezza. La leadership efficace è fatta di tanti ingredienti di cui si deve creare di volta in volta il giusto mix.

Il linguaggio può aiutare questo cambiamento o è una forzatura?

Si deve fare attenzione a non mettere il focus nel punto sbagliato: dibattere se dire “ingegnere” o “ingegnera” rischia di essere limitante. La principale ambizione a cui puntare nel dibattito invece è poter essere valutati per quello che si è, per merito, talento, competenze e leadership, e di poter aver accesso alle stesse opportunità di carriera. Focalizzare il dibattito sull’utilizzo delle parole in una sorta di antagonismo maschile/femminile può diventare un alibi dispersivo per non affrontare concretamente la situazione e non farla così evolvere. Dovremmo invece riuscire a scardinare stereotipi e double standard, e a far sparire definitivamente la questione di genere dal dibattito sulla leadership; con maggior consapevolezza nel management e sostenendo “dal basso” un maggior empowerment, costruire così la leadership del futuro.

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