Gen Z e il rifiuto del “taglia unica”
Le aziende devono iniziare il viaggio dall’omologazione verso la personalizzazione

I giovani cercano esperienze su misura, mentre troppe aziende insistono con il “copia-incolla”. Risultato? “Scroll” e arrivederci. Poi non lamentiamoci se i talenti Gen Z cambiano senza pensarci due volte: non “comprano in serie”.
Immaginiamo una ragazza Gen Z che entra in un negozio. Davanti a lei vede scaffali ordinati, tutti pieni dello stesso modello di sneakers bianche, perfette, pulite, identiche. Dopo solo tre secondi, alza gli occhi al commesso e chiede: “Ok, ma le avete in versione personalizzata? Magari con un dettaglio che dica chi sono io, che mi permetta di contraddistinguermi?” Il commesso sorride e risponde: “No, queste vanno bene per tutti”. Poi che succede? Lei esce, tira fuori lo smartphone e ordina online. Dove? Da chi non le vende semplicemente un paio di scarpe, ma un’esperienza: colori, pattern, messaggi da stampare. In pratica, un prodotto che non è “per tutti”, ma solo per lei.
Quello appena esposto non è affatto un capriccio. I numeri parlano chiaro: quasi la metà della Gen Z (49 %, fonte ContentfulAdam Connell) smette di comprare da un brand che non offre esperienze personalizzate. Non è questione di essere dei “viziati digitali”, si tratta piuttosto di una volontà di ricercare un’identità. Questa generazione non vuole essere un semplice segmento di mercato, bensì protagonista.
Le aziende, invece, continuano a giocare la medesima carta dell’omologazione. Ma diciamolo: tentare di proporre lo stesso messaggio a milioni di giovani abituati a TikTok, streaming on demand e playlist personalizzate, è come cercare di convincere qualcuno che Netflix debba tornare al palinsesto del sabato sera anni ‘90. Un controsenso e clamoroso paradosso!
Le aziende sono troppo legate alla comfort zone dell’omologazione, al “prodotto unico per tutti”. Addirittura, ci sono molti consulenti di formazione che sono legati ancora a una offerta di training interaziendali, come se le necessità di sviluppo delle competenze manageriali fossero persino le stesse per le persone in contesti aziendali diversi. Se lo offrono, ci sarà qualche azienda che ci crede ancora nella omologazione necessaria e ineluttabile. La domanda vera è perché lo fanno? (parafrasando una canzone di Marco Masini di 30 anni fa, non a caso un po’ indietro nel tempo…)
Per caso, forse, per la paura di gestire complessità diverse? Di perdere un controllo fondato su set di competenze manageriali indelebili e consolidate? Timore di scardinare un sistema su cui si fonda l’indirizzamento delle attitudini dei collaboratori? Ottimizzazioni dei costi?
Ogni azienda avrà il suo motivo, ma un fatto è chiaro: non hanno la consapevolezza che l’omologazione sarà il nuovo fallimento, perché restare immobili è più pericoloso di ascoltare le nuove generazioni che stanno entrando in azienda. Si deve iniziare ad avere contezza che per i GenZ essere trattati tutti allo stesso modo non è uguaglianza, è noia.
La personalizzazione non è per nulla un lusso, bensì un biglietto d’ingresso per far rimanere i giovani. Le aziende che non lo capiscono rischiano di perdere attrattiva più velocemente di una tendenza su TikTok (sappiamo bene quanto durano…).
Immaginiamo un ragazzo Gen Z che apre Spotify: in pochi secondi trova la sua playlist, costruita sui brani che ha ascoltato durante l’anno. Non è solo musica, è una fotografia della sua identità, pronta da condividere anche nelle storie Instagram. Ora immaginiamo lo stesso ragazzo aprire una piattaforma che gli propone sempre la stessa “Top 10 in Italia”. Dopo due scroll sbuffa: “Ok, ma io? Dove sono io in tutto questo?”. I dati dicono che quasi il 70% degli acquisti dei Gen Z è ispirato dall’idea di esperienze su misura.
Traduciamo per le aziende: se si è in grado di coinvolgerli personalmente, il tasto “abbandona” è a un click di distanza.
La Gen Z non vuole prodotti preconfezionati: vuole esperienze. Non vuole pacchetti uguali per tutti, ma qualcosa che dica: questo è fatto per me. Varie ricerche di McKinsey, Deloitte e Nielsen mostrano come il circa l’80% della GenZ cerchi brand personalizzati.
Eppure, mentre i ragazzi si aspettano unicità, molte aziende continuano a vendere standard: ruoli fissati, programmi di on-boarding, formazione, percorsi di carriera sempre uguali e validi per tutti, indistintamente e genericamente. Ha sempre funzionato in passato e con supponenza si pensa che possa essere apprezzato anche per una generazione che cambia app e cambia brand alla velocità di un like e che difficilmente è attratta da una T-shirt “taglia unica per tutti”.
Mentre una che racconta una storia particolare o che può essere personalizzata, diventa immediatamente un pezzo di identità per cui innamorarsi poiché l’esperienza vale più del possesso. Un programma di sviluppo aziendale standardizzato, infatti, vale molto meno di uno specificamente disegnato per il giovane talento.
I dati indicano, inoltre, che la GenZ è la generazione dell’autenticità su misura:
- 49 % – disdegna esperienze impersonali
- 71 % – disposto a pagare di più o scegliere brand etici
- 59 % – apprezza la vulnerabilità… sì, perché chi è perfetto e immutabile è noioso
In questo contesto, le aziende restano, invece, nella comfort zone dell’omologazione:
- i colloqui seguono processi standard e interminabili: dicono perché così si riducono i bias, in realtà perché si è sempre alla ricerca del consenso più ampio possibile e che il candidato sia adattabile a schemi precostituiti e immutabili, per poi lamentarsi che non si ha più la capacità di innovare;
- i ruoli sono disegnati con schemi rigidi all’interno di una definita struttura organizzativa che poteva essere un valido e necessario ancoraggio per le generazioni precedenti, ma oggi spesso ingessa il talento dei giovani;
- i processi di lavoro seguono policy perché si crede che la normativa sia più efficace delle relazioni;
- i salari sono ottimizzati per ottenere un costo minore possibile, bloccati da contratti vecchi e spesso scaduti, senza premiare chi porta idee e creatività;
- i piani di formazione sono quanto più standard possibili offerti alla maggior parte delle persone, invocando un nuovo principio di “democratizzazione”, senza pensare che ciascuno ha dei propri talenti innati da sviluppare per sé stesso e per il bene dell’organizzazione;
- lo stile di leadership è ancorato a principi antichi del “one minute manager” di memoria più che trentennale, incurante di porre attenzione all’ascolto e al coinvolgimento attivo delle persone, nonché alla identificazione del talento che ogni persona ha in sé.
Benissimo, se pensiamo che tutto ciò possa essere ancora valido, continuiamo a imporre un menù fisso a una Gen Z affamata di unicità: è come offrire loro un “gelato alla vaniglia” a volontà perché è sempre piaciuto ai più, peccato che prima che poi i giovani ordinano un “cono” come desiderano loro, altrove, dove chiederanno a ciascuno i gusti personali. Insomma, è come intestardirsi a servire un menù fisso a chi vuole piatti unici e innovativi… il risultato? Prima o poi andrà in un altro ristorante che glieli offre.
Prendiamo ora una giovane viaggiatrice Gen Z: compra un volo, ma non cerca solo “destinazione e prezzo”. Lei vuole aggiungere unaa playlist da ascoltare in aereo, l’opzione per piantare un albero con il suo biglietto e magari la possibilità di costruire l’itinerario insieme ad altri viaggiatori come lei.
Lo stesso vale per il viaggio nelle aziende: quando parliamo di “employee journey” non possiamo dimenticarci che i giovani sono alla ricerca del proprio percorso, magari da costruire con il proprio capo che dovrà abituarsi ad ascoltare ed essere propositivo. Dovrà trovare le condizioni per sviluppare il talento innato che vede del proprio collaboratore, creando le condizioni ideali all’interno del team.
Ambiente, relazioni e processi adeguati, dovranno essere le occasioni per dimostrare una leadership consona ai momenti di oggi. Questa sarà la vera sostenibilità aziendale, guidata da leader con adeguate capacità relazionali ed empatiche, che attireranno e tratterranno quanti più Gen Z possibili.
Sono leader che hanno ben presente che una buona parte dei potenziali clienti Gen Z li saluta se li “standardizzi” e che hanno finalmente capito che non vogliono più perderli perché il “tutto per tutti” è sempre stato troppo comodo.
Sono leader che sanno comunicare in modo efficace e più attuale verso i giovani che sono ispirate dai social per gli acquisti, che danno più fiducia nei micro-influencer rispetto a star lucenti, che credono molto nell’ interattività continua tramite sondaggi veloci e livestream. Coloro che sono attratti da esperienze da vivere pienamente.
Finalmente si cambierà la comunicazione interna ancorata su pagine poco frequentemente aggiornate di una obsoleta intranet aziendale, per nulla interattiva, in cui si possono trovare tantissime policy ma pochissime informazioni sugli obiettivi dell’azienda, dimenticandosi l’importanza di dare il senso al lavoro di ciascuno.
Finalmente ci si allontanerà dalle survey di clima che generano solo diffuse aspettative con poche risposte tangibili, a favore di frequenti incontri in cui discutere gli interessi e le aspettative di ciascuna persona.
Finalmente si abbandonerà il rito del performance management inteso come il “Momento Solenne” annuale in cui si fissano obiettivi o si giudicano i risultati, a favore di un più efficace feedback continuo. Visto che tutto è molto fluido e molti sono i cambiamenti nel corso di un anno.
Finalmente ci si scrollerà il peso di leader necessariamente brillanti, che tutto sanno e che hanno una risposta per tutto, a favore di chi è consapevole di non essere Pico Della Mirandola e, scendendo dal piedistallo della supponenza, disegni team di persone con i talenti che possano concorrere per un obiettivo comune.
Focalizzarsi su una necessaria personalizzazione significa necessariamente svecchiare delle prassi obsolete che potevano essere ottime in altri tempi ma non più oggi.
Pensate a quanto sarebbe innovativo un colloquio in cui i manager mostrino i lati deboli e sbagliati dell’azienda, chiedendo al candidato se ha le competenze e le capacità di aiutarli a migliorare. Un momento di estrema trasparenza e autenticità che catturerebbe sicuramente i giovani: il 59 % della Gen Z è molto attratto da un brand che mostra vulnerabilità o ammette imperfezioni, rispetto al 17 % che preferisce brand sempre perfetti (fonti: Amra and Elma LLCZebracat).
La personalizzazione, quindi, non è un gadget per viziare i giovani, è la nuova regola del gioco. Se i GenZ vogliono esperienze personalizzate, le aziende non possono continuare ad omologare: è necessario un cambiamento!
Se si pensa che sia troppo complesso o costoso, è sufficiente considerare che quasi la metà dei Gen Z lascia l’azienda senza pensarci due volte se non si sente coinvolto.
È ora di abbandonare stilemi di aziende legate al modello di massa di copiare-incollare e iniziare, invece, ad abbracciare quelli di aziende come co-creatori di esperienze: molte idee sono portate dai giovani e i manager più senior intelligenti le ascoltano con interesse, evitando di sentirsi prima o poi irrilevanti e obsoleti coi tempi che avanzano.
Continuare con l’omologazione oggi equivale a presentarsi a una festa Gen Z con un CD masterizzato di musica anni ’90. Nostalgico? Forse. Rilevante? Nemmeno un po’.
Laureato in Ingegneria Elettronica, Nicola Ladisa ha maturato un percorso professionale in Procter &Gamble, Pirelli e Prysmian in ambito Supply Chain, HR e Organization. Dal 2013 al 2024 è stato Direttore HR di De Agostini Editore, Dea Capital e della Holding del Gruppo. Autore, relatore in convegni HR, è attualmente Professore a contratto all’Università IULM.