Gestire la diversità generazionale nelle aziende italiane: da sfida a vantaggio competitivo.
Perché convivere tra Baby Boomer, Gen X, Millennial e Gen Z è la nuova priorità delle grandi organizzazioni (aziende, industrie, istituzioni)

In Italia la convivenza tra quattro (presto cinque) generazioni al lavoro è già realtà: un fenomeno che non si era mai verificato in nessun altro contesto storico.
L’invecchiamento demografico, l’ingresso accelerato (a volte “forzato”, grazie alle lauree brevi o ai corsi professionali per accedere nell’arena professionale) della Gen Z e l’adozione diffusa di tecnologie digitali stanno riscrivendo aspettative, stili di leadership e modelli organizzativi. In questo contesto, saper gestire la diversità generazionale non è più un tema “soft”, ma una leva strategica in cui le aziende sono sempre più spesso chiamate a riflettere su nuovi modelli di performance, innovazione ed employer branding.
Quante volte sentiamo dire che i “giovani” (la cui attribuzione, poi, è del tutto soggettiva) non hanno voglia di lavorare, o che i “senior” (per non dire peggio) non hanno spirito di adattamento al mondo che cambia? E in quanti – spesso nel campo di gioco delle Risorse Umane – lamentano con stupore che sono i giovani a fare il colloquio alle aziende, con domande come “quanti giorni di smart working avrò? Siete attenti alla sostenibilità? Che attitudine hanno i miei futuri capi?”
Eppure, non possiamo (più) permetterci di guardare alle generazioni più giovani con aria di sufficienza: studi e indici ci illustrano la direzione che sta prendendo il nostro paese e, spoiler, non è la più rosea.
I dati demografici, in fatti, fotografano una trasformazione profonda: al 1° gennaio 2025 le persone con 65 anni e più rappresentano quasi un quarto della popolazione italiana (24,7%). La fertilità è stabilmente bassa (tasso di fertilità in Italia si è attestato al 1,24 nel 2022), mentre l’età media è tra le più alte al mondo (siamo secondi solo al Giappone). Nel prossimo quarto di secolo, inoltre, l’ISTAT prevede che la popolazione in età lavorativa (15–64 anni) si ridurrà di oltre il 20%, scendendo dal 63,5% del totale nel 2024 a circa il 54% entro il 2050.
Parallelamente cresce l’occupazione dei lavoratori “senior”: il tasso di occupazione 55–64 anni ha toccato il 59% a fine 2024 (dati Eurostat), segno che le organizzazioni dovranno ripensare i percorsi di carriera, i piani di reskilling e le politiche di salute e sicurezza per una forza lavoro più longeva, ma anche nuovi percorsi di ingaggio e sensibilizzazione verso il lavoro.
Se diamo retta ai numeri, giovani e senior sono quindi sempre più “obbligati” a lavorare fianco a fianco: una dicotomia che deve trovare nuove forme di equilibrio, dalla comunicazione alla visione, dagli strumenti di dialogo al “fit valoriale” che si nutre verso l’azienda e, più in generale, verso il lavoro in senso stretto.
Solo le aziende capaci di coltivare la convivenza tra diverse visioni e culture (si, perché di culture si parla) avranno vantaggi competitivi, sapranno dialogare meglio al loro interno e godranno di un tasso di attrattività maggiore sia sul business sia sul famigerato mercato dei talenti, sempre più agguerrito.
Team eterogenei per età, per esempio, combinano conoscenze tacite ed esperienza (Boomer/Gen X) con competenze digitali e nuove prospettive (Millennial/Gen Z), migliorando creatività, problem solving e riducendo il rischio di adagiarsi sul fatidico “si è sempre fatto così”, vero cancro di qualunque organizzazione nei nuovi anni ’20.
Con la demografia sfavorevole di cui sopra, inoltre, le aziende non possono permettersi di perdere talenti. L’employer branding efficace parla linguaggi diversi: per la Gen Z si trattano temi quali crescita trasversale e mobilità interna; per i Millennial la flessibilità; per i profili senior invece si punta tutto sui valori e sul riconoscimento delle competenze tecniche che hanno sviluppato per l’azienda nei decenni trascorsi. Un mix pazzesco e assolutamente affascinante capace di far evolvere l’organizzazione se gestito a dovere, e allo stesso tempo di mettere in profonda crisi se trascurato.
L’ostacolo più grosso, come in tutte le cose, parte dalla consapevolezza e dalla comprensione del problema (o dell’opportunità, se si è sulla faccia ottimista della medaglia). Proviamo quindi a fare chiarezza sulle caratteristiche e aspettative di ciascuna generazione.
Dando priorità alla seniority, partiamo dai Baby Boomer (1948–1964), i quali vantano una forte propensione verso la valorizzazione dell’esperienza, il senso del dovere, la lealtà all’azienda e una forte etica del lavoro; al contrario la generazione successiva (Gen X 1965–1980) ha come caratteristica la costante ricerca dell’autonomia e della responsabilità individuale, con una visione quindi meno “gerarchica” del lavoro. Inoltre, recenti studi hanno anche dimostrato come il famoso “work-life balance” sia già nelle corde della Gen X (solo, non sapevano bene cosa fosse 20 anni fa). Arriviamo quindi alla generazione “ponte” tra i due mondi, parlando dei Millennials (1981–1996), che rincorre più lo “scopo” (purpose) del Lavoro, e non il tempo trascorso davanti al computer, oltre all’impatto positivo del proprio operato. Molto attenti ai temi di sostenibilità, preferiscono strutture più orizzontali e meno burocratiche rispetto ai predecessori e vantano – per primi – la ricerca del feedback costante. Finiamo con la fatidica Generazione Z (1997–2012), forse la più disruptive di tutte le generazioni. Per un Gen Z valori quali autenticità, inclusione, benessere personale, lavoro di squadra e sviluppo delle competenze sono più importanti di crescita verticale, della gerarchia e dello “status” nell’organizzazione. Ritroviamo inoltre nella Gen Z, come nella X, la ricerca di armonia e del bilanciamento vita-lavoro, ma una fortissima propensione nel cambiare posto di lavoro se non ci si trova allineati con la visione aziendale o, semplicemente, se il rapporto non offre sufficienti stimoli.
La sfida generazionale, quindi, non si risolve con benefit “one‑size‑fits‑all”. Richiede scelte intenzionali su cultura, leadership e sistemi di gestione. Le aziende che trasformano l’eterogeneità anagrafica in collaborazione concreta ottengono più idee, migliori decisioni e un brand più attrattivo. Con un paese che invecchia e una forza lavoro in cambiamento strutturale, il generation management non è una moda: è un requisito (reale) per la competitività.
Insomma, c’è tanta carne al fuoco e tanti cambiamenti nell’orizzonte delle Risorse Umane di oggi e, sopratutto, di domani: ci evolveremo o collasseremo?
Leonardo Trifiletti – Head of Corporate Business di Sole 24 ORE Formazione, dove guida progetti formativi dedicati a innovazione, leadership, sostenibilità e intelligenza artificiale per le principali aziende italiane. Da anni si occupa di sviluppo del capitale umano, costruzione di percorsi formativi corporate e strategie di posizionamento delle aziende a beneficio del mondo HR.
Ha lavorato in contesti organizzativi complessi a stretto contatto con imprese, istituzioni e top managers su temi di trasformazione organizzativa, diversity & inclusion e nuovi modelli di lavoro.
Appassionato di geopolitica, società e cultura, è autore del libro Medaglia – Le due facce del Paese più bello del mondo e collabora come divulgatore su temi di cambiamento e innovazione.
Sole 24 ORE Formazione è l’unica scuola de Il Sole 24 Ore, nato dalla partnership con Multiversity, leader italiano nella formazione digitale. Grazie a un gruppo di professionisti dedicati alla gestione di programmi corporate con estrazione aziendale e consulenziale, Sole 24 ORE Formazione mette a disposizione dei Partner i migliori esperti di settore, per offrire il supporto più efficace attraverso piani formativi su misura, innovativi e di immediato impatto. Aree di specializzazione: AI, Digital, Tech e Innovazione, ESG e Sostenibilità Aziendale, New Ways of Working (soft skills) e Business Building (risposte formative concrete alle sfide specifiche di settore per ciascuna azienda). Per i dettagli consulta la pagina: Formazione a misura per aziende



