La libera espressione del pensiero non può discriminare

Una sentenza della Corte di Giustizia Europea relativa a un caso italiano in cui entrano in ballo l’assunzione di persone omosessuali e i limiti alla libertà di espressione. Con Giuseppe Linguaglossa, avvocato giuslavorista del team Legalilavoro, abbiamo fatto il punto sul caso e sull’importanza di norme anti discriminazione sul lavoro.

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La libertà d’espressione non può essere confusa con la libertà di pronunciare frasi discriminatorie. La prima è sacrosanta, la seconda è illegale anche se l’Italia non brilla per normativa anti discriminazione. E le frasi discriminatorie possono impattare anche sul mondo del lavoro, con il riconoscimento del danno per chi le subisce, anche se non si tratta di una persona singola, ma di una categoria. In questo caso le persone omosessuali.

Un caso (relativo ad alcune frasi pronunciate da un avvocato noto al grande pubblico  durante la trasmissione La Zanzara) è stato recentemente trattato dalla Corte di Giustizia Europea, che ha reso una pronuncia innovativa. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Linguaglossa, avvocato giuslavorista del team Legalilavoro.

Perché questa sentenza ha un rilievo per il mondo del lavoro?

Al di là del protagonista di questa vicenda, che interessa poco, è interessante soprattutto capire perché la Cassazione ha fatto una pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea. La Rete Lenford, una associazione di avvocati per i diritti delle persone LGBTI, si è messa in gioco chiedendo un risarcimento per le dichiarazioni fatte dal noto collega. Sia in primo che in secondo grado c’è stata la condanna dell’avvocato, giunti in Cassazione la stessa si è chiesta se l’associazione avesse la capacità di stare in giudizio non per tutelare un soggetto specifico ma un insieme di persone. Da qui la pregiudiziale rivolta alla Corte di Giustizia Europea.

Che cosa ha stabilito?

Che non ci sono elementi che impediscano la presenza in giudizio di una associazione come la Rete Lenford, che può agire chiedendo anche un risarcimento.

In sostanza?

Semplificando: il noto avvocato ha affermato che lui non assumerebbe mai persone omosessuali. Ora la Cassazione dovrà valutare, come stabilito dalla CGE, se quelle dichiarazioni sono in grado di influenzare altri soggetti. Cosa che a me sembra ovvia, vista la notorietà nazionale della persona, le cui opinioni potrebbero incentivare altri datori a limitare l’accesso al mondo del lavoro alle persone omosessuali, perpetrando forme di discriminazione, come se fossero giustificate. Nella sentenza è inserito a chiare lettere il limite alla libera manifestazione del pensiero: non può essere un pretesto per violare altri diritti fondamentali della persona. È evidente che una dichiarazione del genere sia discriminatoria, non c’è nessun tipo di valutazione sulle competenze professionali della persona ma solo sulla sua sfera più personale. Sarebbe come dire che non si assumono persone di colore.

È che diritto ha la Rete Lenford a chiedere il danno se non c’è una persona fisica danneggiata?

La CGE ha riconosciuto il diritto a stare in giudizio e a chiedere i danni. È stato riconosciuto l’impegno statutario dell’associazione, che ha avviato la contesa giudiziaria di cui stiamo parlando. Va da sé che l’eventuale risarcimento sarà impiegato in attività istituzionali di lotta alle discriminazioni.

Ma la persona sotto accusa ha dichiarato che non avrebbe dovuto fare assunzioni, quindi non ci sarebbero danneggiati…

Ma non è così. Le sue parole sono rilevanti anche in assenza di un piano di assunzioni, proprio perché persona nota in grado di influenzare altri. Nella stessa sentenza la CGE fa riferimento a un proprio provvedimento del 2013, relativo a un caso di dichiarazioni simili, fatte dal patron di una squadra di calcio rumena. Sentenze simili, relative a discriminazioni di genere sul lavoro, ci sono state anche di recente negli USA.

Passi avanti, ma a che punto è la legislazione antidiscriminazione in Italia?

Il dibattito in corso sul ddl Zan mostra il livello della discussione… molto basso per tante ragioni. Vero che parliamo di una normativa contro le discriminazioni in generale, ma l’aspetto lavorativo è direttamente collegato.

Come?

Il codice penale già prevede strumenti per la tutela delle discriminazioni ed è possibile ottenere risarcimenti. Il ddl Zan non fa altro che aggiungere, come aggravante, alle tipologie di discriminazione già previste per motivi etnici, razziali e religiosi, anche quelle relative a motivi di genere sessuale. Già oggi non si può discriminare… è strumentale parlare di legge bavaglio, si tratta solo di riconoscere l’aggravante e nessuno mette in dubbio l’articolo 21 della Costituzione. Il link con il lavoro, stando a un recente report sulla condizione delle persone omosessuali in Europa, sta nel fatto che soprattutto nella realtà lavorativa sono pochissime le persone omosessuali che si espongono e tante quelle che accettano passivamente pressioni perché temono ripercussioni o il licenziamento. Questa situazione – ribadendo che nessuno deve essere valutato per l’orientamento sessuale, che è un fatto privato – è figlia della mancanza di una normativa antidiscriminatoria efficace in ambito lavorativo. Per questo servono soluzioni, non so se lo sia il ddl Zan ma è comunque un passo avanti. Al netto delle leggi,  è utile ricordare che ci sono strumenti già esistenti nei luoghi di lavoro, anche se non sempre posti in essere con efficacia: penso ai comitati pari opportunità nella PA, che potrebbero aiutare a far emergere situazioni di discriminazione con valutazioni sul benessere delle persone e anche con l’intervento del medico competente. In generale servirebbe una maggiore attenzione anche da parte dei sindacati su queste tematiche.

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