L’assessment delle competenze come chiave di retention e career development

L’assessment delle competenze manageriali e del potenziale di crescita delle persone – in particolare delle key people – è fondamentale per qualunque organizzazione, poiché consente di innescare percorsi formativi, di job rotation e di career development, ma anche di aumentare la retention. Ne abbiamo parlato con Nicola Ladisa, HR & Organization Director Holding De Agostini Spa.

Mappatura delle key people, assessment delle persone di alto potenziale, ma anche nuovi strumenti di welfare e smart working. Sono le leve su cui sta puntando il gruppo De Agostini per trattenere e ricercare i suoi talenti. Ne abbiamo parlato con Nicola Ladisa, HR & Organization Director Holding De Agostini Spa.

Ingegner Ladisa, su cosa si basano le politiche di retention oggi in De Agostini?

«Aldilà di quelle che sono le leve di base, cioè la giusta remunerazione, in allineamento con il mercato del lavoro, la soluzione che stiamo percorrendo in azienda – e che io personalmente raccomando ai vari direttori di funzione e ai direttori di business – è quella di avere prima di tutto una mappatura di quelle che noi chiamiamo le risorse strategiche aziendali. Sono due popolazioni: le key people e le persone con alto potenziale.

Le key people sono coloro che hanno una grande competenza, esperienza, tanti anni di lavoro sulle spalle e che quindi hanno consolidato la loro bravura nel ricoprire il proprio ruolo in azienda.

Per noi sono molto importanti da trattenere, perché se dovessero lasciarci sarebbe veramente una situazione “disruptive” per la nostra organizzazione: comporterebbe una perdita di esperienza, di know-how, ma anche economica, perché trovare persone sul mercato del lavoro con analoga expertise costa parecchio. Ci sono ovviamente i costi di recruitment, che non sono solo quelli da riconoscere agli head hunter, ma anche i cosiddetti costi nascosti, ovvero le ore passate dagli HR o dai Line Manager nell’intervistare i candidati. Queste sono risorse chiave di cui vogliamo avere prima di tutto conoscenza e condivisione con i nostri manager, direttori di business e di funzione, agganciando politiche retributive e di retention ad hoc.

L’altra popolazione, invece, è quella delle persone ad alto potenziale: sono dipendenti che possiedono competenze non necessariamente elevate ma che si stanno formando nel tempo: parliamo di competenze di ruolo e skill manageriali, ma con una potenzialità evidente di crescita».

Come si individuano queste persone?

«Il punto è proprio questo, come le individuiamo? Perché l’occhio attento dell’HR probabilmente ha le capacità per poter fare una “detection” abbastanza puntuale, quello del Line Manager anche, però sono delle letture soggettive. È importante per noi avere un’oggettivazione di queste caratteristiche personali. Per questo utilizziamo degli assessment, chiedendo il supporto di consulenti molto qualificati, non solo con un’esperienza consolidata nel tempo ma anche con una certificazione ad hoc. Siccome si parla di alto potenziale e quindi di utilizzare test particolari, il consulente – o almeno il team leader dei consulenti – deve essere iscritto anche all’albo degli psicologi. Dunque: assessment molto bene articolati, disegnati in maniera tale da poter riconoscere oggettivamente l’alto potenziale della persona.

Evidentemente per poter trattenere questa popolazione non basta solo una politica di retention, non bastano stipendi in linea col mercato, bisogna soprattutto dare loro dei progetti, non solo lavorativi ma anche di “employee experience”, innescando job rotation, job enlargment, piuttosto che sviluppi di carriera o sviluppo delle skill manageriali».

Quali sono i percorsi più apprezzati da questi due profili di persone?

«La situazione drammatica che abbiamo vissuto a causa della pandemia ha portato in auge tutte le nuove leve del people care e del well-being. Faccio un esempio: nei momenti di picco pandemico noi abbiamo adottato 5 giorni di smart working, pur avendo messo in campo tutti i protocolli di sicurezza e pur potendo recarci in ufficio. Però abbiamo preferito lavorare tutti da remoto e anche adesso – nonostante la curva dei contagi sia sotto controllo – non vogliamo abbandonare lo smart working. Il lavoro agile è una delle leve di retention, anche se ne parla da tempo. Ma fa anche parte di un discorso di attenzione alle persone, di well-being, che include anche il sistema di welfare.

In una parte della nostra organizzazione lo abbiamo già sperimentato da tempo e adesso lo vogliamo portare anche in altre aree di business dove ancora non lo avevamo applicato.

Quindi: sì alla formazione, all’attenzione allo sviluppo delle skill manageriali e alla formazione professionale di ruolo – perché abbiamo un focus molto forte sulla leadership per competenza – ma sì anche nuovi strumenti che hanno a che fare con il well-being in senso ampio».

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