Tecnologia e lavoro: skill digitali le più richieste per il 32% delle aziende, ma il 70% dei giovani lamenta mancanza di sinergia istruzione-lavoro

Da un’analisi firmata Epicode, società edu-tech tra le più in crescita in Europa, e SWG, emerge il permanere di un mismatch tra le skill richieste dalle aziende e quelle offerte dal mercato del lavoro, soprattutto nel settore del tech. La poca efficacia del sistema educativo italiano è testimoniata anche dal fatto che molti giovani dichiarano di aver acquisito poche competenze professionali durante il percorso di studi. Basti pensare alle soft skill, che solo il 18% dei giovani dichiara di aver appreso attraverso gli studi, mentre il 50% attraverso l’attività lavorativa e il 32% in autonomia. Uno scenario che desta preoccupazione, soprattutto in relazione alla necessità di formazione continua legata alle professioni emergenti.

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Se la pandemia ha accelerato la digitalizzazione del Paese, mostrandone anche lacune e ritardi, l’attuale crisi energetica ribadisce l’importanza fondamentale del ricorso a processi digitali e tecnologici per efficentare certe procedure e limitare il gonfiarsi dei costi. Va da se, quindi, che siano comparse sul mercato nuove figure professionali e nuovi modelli di business, che sicuramente hanno richiesto coraggio per affermarsi e, soprattutto, un radicale cambio di mentalità di chi le gestisce. Rimane tuttavia il cronico ritardo che il Belpaese deve colmare accelerando ulteriormente il processo di digitalizzazione per non perdere competitività sullo scenario globale.

Gap tra domanda e offerta

Se questa è la premessa, l’Osservatorio condotto da Epicode in collaborazione con SWG, ha messo in evidenza il gap tra domanda e offerta. Se infatti 8 aziende intervistate su 10 (78%) e 7 giovani interpellati su 10 (70%) concordano sul fatto che per le nuove generazioni stanno nascendo nuove opportunità lavorative legate alle professioni emergenti, il 74% delle aziende e l’82% dei giovani affermano che uno dei principali problemi del mercato del lavoro in Italia è la sua rigidità, causata, tra l’altro, dal mancato ricambio generazionale. Mentre un’azienda su 2 (54%) e il 69% dei giovani lamentano una non sinergia scuola-lavoro e una bassa efficienza del sistema educativo. A tal proposito, sono significativi i dati relativi alle soft skill: solo il 18% dei giovani, infatti, dichiara di averle apprese attraverso gli studi; il 50% le ha sviluppate attraverso il percorso lavorativo e il 32% in autonomia (poco distanti i dati relativi alle hard skill: il 31% le ha apprese a scuola, il 55% durante l’attività lavorativa e il 14% in autonomia.

Il futuro: sempre più tech

L’indagine ha tracciato un quadro anche delle professioni del futuro, analizzando gli ambiti che le aziende dichiarano di voler sviluppare nei prossimi anni.

Ça va sans dire che le competenze digitali applicate alla tecnologia figurano al primo posto (32%) seguite dalle skill legate a comunicazione e marketing (22%) e, al terzo posto, competenze manageriale e di controllo di gestione (21%) a pari merito con le skill digitali a supporto del business e del marketing. Interessante poi anche le percentuali dei rispondenti: infatti, il 18% delle aziende che ha messo le skill digitali applicate alla tecnologia al primo posto sono di piccole dimensioni, il 27% di medie dimensioni e il 51% cono corporate; simili percentuali anche per il digital a supporto del business: 15% piccole, 14% medie e 36% corporate.

Per quanto riguarda invece le aree di expertise, è la cybersecurity a rubare al scena, con il 57% della aziende che la mettono al primo posto tra gli ambiti professionali più promettenti, seguito dalla gestione dei sistemi Cloud (42%) implementazione Iot (36%), web development (35%) e machine learning (34%).

L’importanza della formazione

Lo scollamento tra il mondo dell’istruzione e quello delle imprese, sta facendo emergere sempre di più l’importanza della formazione continua e dei programmi di up-skilling e re-skilling. E le imprese vogliono avere un ruolo attivo, contribuendo attivamente alla formazione dei loro web developer: questo è quanto afferma il 71% delle organizzazioni, dichiarandosi disposto a investire per migliorare e aggiornare i responsabili informatici presenti in organico; anche in questo caso le differenze tra piccole (49%), medie (66%) e grandi aziende (93%) sono rilevanti.

Anche i giovani sono consapevoli dell’importanza della formazione continua: il 28% degli intervistati cerca infatti nel lavoro la possibilità di continuare a imparare cose nuove.

A tal proposito, rispetto alle generazioni precedenti, il 52% dei giovani considera molto importante il legame tra lavoro e passioni individuali, ma anche l’equilibrio tra vita privata e vita professionale (35%) e la stabilità economica, collegata al posto fisso (31%). Le prospettive di crescita professionale  (23%) e lo stipendio elevato (20%), invece, risultano meno importanti della possibilità di continuare ad apprendere cose nuove durante il corso della propria carriera (le percentuali sono quasi antitetiche rispetto alle generazioni passate).

Stem o non stem?

Il possesso di una laurea Stem ad hoc – in informatica, ingegneria o web design – per il 68% delle imprese intervistate rappresenta un requisito fondamentale nella fase di assunzione di un web developer. Nella pratica, tuttavia, il 54% delle aziende già dotate di almeno un web developer dichiara di aver sperimentato difficoltà nel reclutamento di laureati Stem, difficoltà che aumentano sensibilmente (arrivando all’86%) proprio tra chi fa del possesso di un titolo di studio di questo tipo un criterio d’assunzione imprescindibile.

Per il 40% delle aziende, invece, il possesso di una laurea Stem per ricoprire una posizione tecnico-scientifica è un criterio ideale ma non vincolante mentre il 75% delle imprese intervistate tra quelle che già hanno in organico almeno un web developer dichiara di avere figure “ibride”, che provengono da percorsi tecnico-scientifici non specificatamente legati alle discipline del coding se non addirittura da percorsi umanistici.

In definitiva, quindi, l’apparente paradosso rende chiara l’immagine del profondo gap tra i profili tecnico-scientifici ideali per le imprese e l’offerta reale del mercato del lavoro italiano, con l’emergere delle “Coding School” come compromesso alternativo ai percorsi di istruzione terziaria.

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