LGBT e diversity in azienda

In Italia ci sono più di un milione di lavoratori LGBT, ma solo uno su quattro ha il coraggio di fare coming out. Come è possibile favorire l’inclusione nei luoghi di lavoro? Ne abbiamo parlato con Paolo Iacci, autore del volume “L’impresa inclusiva. LGBT e diversity in azienda”

lgbt in azienda

In Italia ci sono più di un milione di lavoratrici e lavoratori omosessuali, lesbiche, bisessuali e transgender, ma solo uno su quattro ha il coraggio di fare coming out, per il timore di discriminazioni sul lavoro: dai rapporti con i colleghi a difficoltà nell’avanzamento di carriera, fino al licenziamento.

Una discriminazione silenziosa che si consuma nei posti di lavoro italiani in cui il tema della “diversity” di identità e  orientamento sessuale è scarsamente dibattuto e affrontato. Eppure l’esperienza dice che un ambiente inclusivo comporta significativi vantaggi per tutti gli attori coinvolti: per i lavoratori, ovviamente, che non devono nascondersi e possono vivere la propria condizione in tranquillità, ma anche per le aziende, in quanto se i dipendenti stanno bene e sono sereni lavorano meglio e generano profitto.

Come è possibile, dunque, favorire l’inclusione, mettendo in atto azioni concrete per cambiare la cultura aziendale?
E ci sono aziende virtuose che stanno già attuando il cambiamento?

Ne abbiamo parlato con Paolo Iacci, presidente AIDP Promotion e autore (insieme a Simone Pulcher e Marco Guerci) del volume “L’impresa inclusiva. LGBT e diversity in azienda” (Guerini Next, 2018), nato dalla collaborazione tra Università Statale di Milano, AIDP e Parks – Liberi e Uguali, associazione senza scopo di lucro con un focus prevalente sull’inclusione e il Diversity Management.

“Nella stesura di questo libro siamo partiti da alcuni dati. Innanzitutto quelli dell’Istat, secondo cui sono circa un milione e mezzo i lavoratori e le lavoratrici italiane LGBT (acronimo per lesbiche, gay, bisessuali e transgender, ndr), dunque un numero molto rilevante e maggiore di quello che si pensa comunemente. Il secondo elemento è che, a fronte di un grande dibattito nella società civile, anche a seguito dell’approvazione della legge Cirinnà sulle unioni civili, nel mondo del lavoro questo tema è stato pressoché assente e la popolazione LGBT quasi del tutto ignorata”, spiega Paolo Iacci. “Da poco ci si sta accorgendo di loro come consumatori, penso alle pubblicità che sempre di più fanno riferimento a questa comunità, ma nella grande maggioranza dei casi all’interno delle organizzazioni aziendali non li si considera. Questo perché si tratta di una diversità che si nasconde facilmente e tutti preferiscono ignorarla o considerarla un fenomeno circoscritto ad alcuni settori specifici, come quelli legati alla moda o al fashion”.

Una diversità che si nasconde per paura di ritorsioni all’interno del posto di lavoro.

“Certamente si evita di esplicitare il proprio orientamento sessuale per paura di non essere assunti o di essere ostacolati nella carriera, e questo è tanto più vero quanto più si sale nella scala gerarchica. A livello dirigenziale il fenomeno LGBT sembra sparire del tutto: coming out e carriera sono considerati elementi in contrasto.

Qualcosa però comincia a cambiare:

“Alcune aziende si sono rese conto che non adottare politiche inclusive ha delle conseguenze sia in termini di retention sia in termini di pieno sviluppo ed espressione dei talenti e dunque, in fin dei conti, anche in termini di redditività. Per questo – spiega Iacci – con l’aiuto dell’Università Statale di Milano e dell’Associazione Parks, siamo andati a vedere da vicino le politiche di inclusione adottate dalle aziende più all’avanguardia, in Italia, su questo fronte”.

Sono stati intervistati gli amministratori delegati, i direttori del personale, i responsabili della diversity (laddove presenti) e altri dirigenti e funzionari di 7 aziende italiane o multinazionali presenti nel nostro Paese: Tim, Vector, Barilla, Microsoft, Accenture, Deutsche Bank, Linklaters. Grazie a questo lavoro di ricerca abbiamo potuto apprendere alcune delle best practice messe in atto in tema di inclusione della popolazione LGBT. Alcune aziende, per esempio, hanno modificato i regolamenti interni sui benefits, per esempio l’assistenza sanitaria, ampliandone la possibilità di utilizzo non solo alla famiglia tradizionale ma anche alle coppie di fatto. Altre hanno previsto una copertura delle spese sanitarie per chi deve affrontare il processo di transizione. In altre società sono stati organizzati corsi formativi di sensibilizzazione al tema rivolti a tutti i dipendenti, a partire dal vertice. In tutti i casi si tratta di buone pratiche che possono rappresentare un modello per tutte le aziende”.

Ma Iacci avverte:

“Sono best practice che fanno onore alle aziende che le attuano, ma non sono che il primo passo di un lungo percorso che è appena all’inizio. Manca ancora, nel nostro Paese, una cultura aziendale in questo senso, manca l’abitudine a misurarsi con questo problema. Tanto è stato fatto negli ultimi anni a proposito dell’inclusione di genere e della diversità fisica, ma si è ancora molto indietro relativamente all’inclusione delle persone LGBT. Per cui le buone pratiche che abbiamo rintracciato devono necessariamente essere sviluppate sia in termini di capillarità che di profondità degli interventi”.

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