Previdenza, serve la spinta di pubblico e privato
Lavori intermittenti e assegni magri: ecco perché giovani e donne devono integrare la pensione

Donne e giovani hanno bisogno di pensare alla loro pensione, subito. Prendiamo la prima categoria: stando al Rendiconto di genere del Civ dell’Inps, sebbene le donne siano numericamente superiori tra i beneficiari di pensioni (7,9 milioni contro i 7,3 milioni di pensionati), alle dipendenti del settore privato vanno assegni medi di anzianità/anticipati inferiori a quelli degli uomini del 25,5 per cento. Se guardiamo alle pensioni di vecchiaia, la forbice si allarga sopra il 44 per cento. È il frutto di «una condizione di svantaggio che le donne hanno nel mercato del lavoro – ricorda il Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Istituto della previdenza – Il numero limitato delle donne che beneficiano della pensione di anzianità/anticipata (solo il 27% fra i lavoratori dipendenti privati e il 24,5% fra i lavoratori autonomi) evidenzia le difficoltà delle donne a raggiungere gli alti requisiti contributivi previsti, a causa della discontinuità che caratterizza il loro percorso lavorativo».
Un tema che chiama una risposta politica e che sarà sul palco del talk A&F Live “Previdenza, tra pubblico e privato”, lunedì 19 maggio dalle 9.45 al Palazzo dei Giureconsulti di Milano. Tra i relatori, il sottosegretario al Ministero del Lavoro, Claudio Durigon, e il presidente dell’Inps, Gabriele Fava. A loro il compito di illustrare come bilanciare il difficile equilibrio tra sostenibilità del sistema pensionistico italiano e adeguatezza delle prestazioni.
Pochi, soprattutto tra i più giovani, hanno idea di cosa significhi lasciare il lavoro, quando si guarda all’effetto sul conto corrente. Un assaggio arriva dalla ricognizione della Ragioneria dello Stato sulle Tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico, del giugno scorso. Lì viene calcolato il “tasso di sostituzione netto”, ovvero di quanto si modifica il reddito disponibile di un lavoratore all’atto del pensionamento, considerando anche l’incidenza del Fisco. Ed emerge che, dal 2050 in avanti, l’assegno previdenziale sarà intorno al 66-67% del reddito, quando era sopra l’80% nel 2010. Il problema è tutto dei giovani d’oggi.
I tassi di sostituzione devono essere sensibilmente migliorati, a meno di non rinunciare alla qualità della vita. E qui entra in campo la previdenza complementare. La Ragioneria simula quanto si può rimpinguare l’assegno grazie al versamento di una quota del Tfr (nell’ipotesi, il 50% per gli anni dopo il 2018 e l’intera quota per quelli antecedenti): «Nel 2070, i dipendenti privati raggiungono un tasso di sostituzione al 76,5 per cento, rispetto al 66,3 della sola previdenza obbligatoria. Per i lavoratori autonomi, i valori corrispondenti sono 85 e 67,7 per cento». Ecco dunque l’importanza di una stampella alla pensione pubblica, che può arrivare da una più proficua collaborazione con il privato: l’oggetto dell’intervento di Massimo Monacelli, general manager di Generali Italia.
In un’indagine dello scorso novembre, la società di consulenza finanziaria Moneyfarm calcolava come diversi profili di lavoratori potessero centrare “l’obiettivo 90 per cento”, ovvero ottenere in pensione il 90% del proprio reddito. Il fattore tempo è determinante: «A un trentenne dipendente sarebbe sufficiente investire in previdenza integrativa il 9% del proprio reddito. Un sessantenne autonomo, invece, dovrebbe investire ipoteticamente il 72% del proprio reddito in una linea a rischio medio». Ragionamenti, questi sull’opportunità dell’adesione alla previdenza complementare che sul palco di A&F Live porterà la commissaria della Covip, Francesca Balzani.
In audizione al Parlamento, il mese scorso, Balzani ha tratteggiato i contorni della previdenza complementare: 11,1 milioni di posizioni in essere, 243 miliardi di risorse destinate pari al 10,8% del Pil e al 4% delle attività finanziarie delle famiglie italiane. I rendimenti non sono stati da strapparsi le vesti: nei dieci anni al 2024, il 2,2% offerto dai fondi pensione negoziali è stato battuto dal Tfr (2,4% di rivalutazione), i fondi aperti hanno “pareggiato” mentre i Piani individuali pensionistici nuovi hanno spuntato qualcosa in più (2,9 per cento). Sono le linee azionarie a dare, comprensibilmente, le soddisfazioni maggiori; eppure sono le meno scelte dagli aderenti, con 20,1 miliardi di risorse investite sui 151,2 miliardi del totale di risorse disponibili per le forme previdenziali di nuova istituzione. «È qui che viene in evidenza la ragione per la quale il sistema dei fondi pensione italiano, pur essendo in generale ben costruito, in termini di rendimenti aggregati non realizza in pieno le sue potenzialità», ha detto Balzani. Posto che è corretto, sulla base di una logica “life-cycle”, che nella fase più vicina alla pensione l’investimento si sposti su linee meno rischiose, nella disamina della Covip un ruolo viene attribuito anche alla scarsa cultura finanziaria, o al fatto che il meccanismo di adesione tacita per i neo-assunti prevede linee di tipo garantito, e ancora che un terzo dei fondi negoziali non offre linee con contenuto azionario maggioritario. Un ritardo, questo, che si traduce anche in una sfumata opportunità d’investimento nelle aziende nostrane.