Quiet quitting, cos’è e perché le aziende devono fare attenzione

Quiet quitting, Great resignation… gli inglesismi per descrivere i trend che caratterizzano il mondo del lavoro post Covid si sprecano. In questo caso, però, si tratta di un’etichetta applicata a un fenomeno in apparenza del tutto normale. Il “licenziamento silenzioso” non ha, di fatto, nulla a che vedere con le dimissioni. Ha piuttosto a che fare con lo stop netto a tutto ciò che non è strettamente parte della propria mansione e che esula dal proprio orario di lavoro o pay grade. È sbagliato mettere un freno agli extra non remunerati, allo stress e all’overworking? Assolutamente no. Dalla prospettiva del datore di lavoro, però, si tratta di un fenomeno da attenzionare perché racconta qualcosa di molto importante sulla nuova percezione del lavoro dopo la pandemia e sui sentimenti di frustrazione e demotivazione che possono serpeggiare, silenti, in aziende e organizzazioni anche floride.

Quiet quitting

Che il Covid ci abbia fatto rivedere il nostro work-life balance e ci abbia fatto ripensare i nostri spazi – sia fisici sia mentali –  è un dato di fatto. Così come è acclarato che molti elementi dell’emergency working sono diventati poi una consuetudine confluita nello smart working, segnando anche un cambio di mentalità a tutti i livelli aziendali. Il quadro attuale non è ancora del tutto delineato e nuovi fenomeni continuano ancora a emergere: dopo l’importante percentuale di lavoratori che ha abbracciato the great resignation, licenziandosi anche senza avere un piano ma solo mossi dalla voglia di cambiare radicalmente vita, l’ultimo fenomeno individuato dagli esperti è il “quiet quitting”; se letteralmente significa “licenziamento silenzioso”, in realtà si tratta di un cambio di atteggiamento, una sorta di “disamoramento” del proprio lavoro, che porta all’indifferenza anche davanti a un ipotetico licenziamento, causato proprio dal non aggiungere più valore all’azienda con il proprio operato.

Tra i motivi che hanno portato a questa mancanza di egagement, sicuramente ci sono l’assenza di confini netti tra la vita privata e quella lavorativa e il disorientamento provocato dalla pandemia ma anche il fenomeno del burn out che, secondo le stime di McKinsey, ha coinvolto – a vari stadi – circa il 40% della popolazione lavorativa.

Che fare?

Cruciale diventa quindi il ruolo dei manager: entrare in empatia con i propri collaboratori, informarsi – realmente interessati! – sia del loro stato di benessere sia di cosa davvero li coinvolge come persone, indipendentemente dal ruolo lavorativo può sicuramente aiutare a ritrovare il fil rouge che crea un legame tra l’individuo, il proprio lavoro e – fondamentale – la mission della propria azienda. Anche l’interazione – tra colleghi ma anche con i vertici aziendali –, la riscoperta dell’essere umano al di là del ruolo è un tratto importantissimo, al quale oggigiorno si dà sempre più valore: non stupisce la nascita di numerose community originatesi sul posto di lavoro. Inoltre, la condivisione, di obiettivi, ma anche di feedback è un’altra leva che i manager possono usare per “legare” i dipendenti all’azienda: sentirsi parte del tutto, aver accesso alle informazioni, condividere la vision a un livello superiore aiuta sicuramente l’egagement.

Lavoro non più al centro

Interessante è la reazione dei lavoratori più giovani: per gli under 35 l’engagement è un valore essenziale, in nome del quale sono disposti a lavorare più ore del dovuto e anche per uno stipendio non congruo purché il lavoro sia in linea con i propri valori e rispecchi la ricerca del proprio obiettivo personale. Per questa categoria, il quiet quitting rappresenta un approccio meno maniacale al lavoro, un “licenziarsi senza licenziarsi”, ovvero il desiderio di slegare la propria individualità e identità dalla propria carriera professionale. Lavorare lo stretto indispensabile, senza tirare tardi in ufficio, cercando poi le gratificazioni personali in altri ambiti: «Dalla pandemia in poi il rapporto delle persone con il lavoro è stato studiato in molti modi e la letteratura sembrerebbe sostenere in generale che in tutte le professioni quel rapporto sia cambiato» ha affermato Maria Kordowicz, docente della University of Nottingham che si occupa di comportamento organizzativo nelle imprese, in un’intervista rilasciata al Guardian.

Italia fanalino di coda

La mancanza di motivazioni, dunque, come fattore scatenante del quiet quitting, è confermata da una ricerca della società americana di analisi e consulenza Gallup sull’esperienza e le valutazioni dei lavoratori e delle lavoratrici di tutto il mondo riguardo alla loro vita professionale.

Secondo il rapporto più recente, l’Italia è il fanalino di coda tra i 38 Paesi europei: nel Belpaese soltanto il quattro per cento delle persone che lavorano si dichiara coinvolto o entusiasta del proprio lavoro, mentre la percentuale di soddisfazione generale in Europa è del 14% – comunque la più bassa tra quelle di tutte le dieci aree del mondo prese in considerazione –: negli Stati Uniti, per esempio, dove il livello di soddisfazione è in generale più elevato che in altre aree, esiste comunque un marcato squilibrio generazionale, che vede il 54% dei nati dopo il 1989 affermare di non sentirsi preso dal proprio lavoro.

Moda passeggera o nuovo atteggiamento?

Secondo il Wall Street Journal, il quiet quitting potrebbe essere una moda passeggera, amplificata dall’uso massiccio dei social media, dove il relativo hashtag ha spopolato, mentre, secondo l’opinione di un insider, Clayton Farris, un quarantunenne tiktoker e attore statunitense, non si tratterebbe di un fenomeno così negativo: in un video su TikTok Farris ha infatti affermato: «La parte più interessante è che non è cambiato niente. Lavoro ancora altrettanto duramente. Riesco ancora a ottenere quanto ottenevo prima. Semplicemente non mi stresso e non mi faccio a pezzi dentro» ponendo l’accento sullo stress nocivo che il lavoro può procurare e che alla lunga inibisce anche le performance.

Sulla stessa linea di pensiero, anche un giovane ingegnere newyorkese di 24 anni, Zaid Khan, tra i più citati autori di video diventati virali su TikTok a proposito del quiet quitting:  Khan ha descritto questo approccio al lavoro come un rifiuto di aderire alla mentalità per cui «il lavoro deve essere la tua vita» e la «produttività» una priorità assoluta. E ha detto che questo non significa affatto venir meno ai propri impegni.

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