«Siamo più collegati, lavoriamo di più ma non meglio»

Roberto Degli Esposti, Managing Partner di Performant by SCOA, riflette sulla relazione tra produttività, digitalizzazione e nuovi modelli di lavoro. «Ogni mattina, quando si apre l’agenda, è fondamentale chiedersi se ciò che si ha in programma sia davvero la migliore soluzione possibile».

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«La produttività non è cresciuta negli ultimi venti anni, nonostante investimenti sontuosi e sviluppo tecnologico, e la sensazione che hanno quasi tutti i lavoratori che hanno almeno 50 anni è quella di lavorare molto di più e di guadagnare più o meno la stessa cifra». Ma non è una sensazione, è una realtà, secondo Roberto Degli Esposti, Managing Partner di Performant by SCOA, e questo perché «non si vuole prendere in considerazione un modo di affrontare la dinamica del lavoro secondo criteri rinnovati».

Dottor Degli Esposti, cosa intende dire?

«Un nuovo modello non equivale alla combinazione di due modalità già note, ma significa ragionare su cosa realmente incrementa la produttività delle persone. Un esempio: tutti credono di lavorare in team ma nessuna azienda ha un reale modello per lavorare in questo modo, perché i modelli in essere sono tutti incentrati sulla persona e sulla posizione che questa ricopre. Tutti sappiamo che il team riesce ad avere un livello di produttività, di creatività, di innovazione superiore. Tuttavia, quando si gestisce un’azienda, la prima cosa che si fa è creare una job description che debba ricoprire uno specifico compito, sebbene le persone in sé non l’abbiano mai fatto nella loro esperienza formativa scolastica; ricevono una lettera o un’email da parte del capo che augura loro di fare molto bene e tutto finisce lì».

E invece, cosa significa lavorare in team?

«Un gruppo di lavoro è costituito da persone scelte in ragione della posizione che ricoprono; il lavorare in team è un sistema olistico e assemblato in ragione delle qualità degli individui che lo compongono. Ciò significa, ad esempio, che l’idea migliore all’interno di un team nuovo che debba lavorare sui prodotti la potrebbe avere una persona che si occupa di controllo di gestione che invece non è una figura prevista nei gruppi di lavoro».

Cosa sta accadendo oggi con il rientro al lavoro “in presenza”?

«Le persone tornano in ufficio, atterrano sulla loro scrivania e si collegano in remoto con quelli che sono a casa. Poi ci sono quelle nuove che entrano in azienda e vengono accompagnate affinché si ambientino e acquisiscano la cultura aziendale: dovrebbero conoscere gli altri che però, magari, stanno lavorando da casa».

Sta dicendo che non si intravvede una ratio nelle nuove modalità organizzative?

«Ci si sta solo concentrando sull’equilibrare gli sforzi delle persone che vanno o non vanno in sede».

L’emergenza pandemica ha costretto a stare lontani dall’ufficio, poi alcune persone si sono rese conto che lavorare in remoto talvolta aiuta la vita familiare e personale, altre preferirebbero stare sempre in ufficio

«Il sentire è individuale; le organizzazioni, tuttavia, hanno anche la finalità di incrementare la generazione di valore, ma per adesso sta solo aumentando lo sforzo delle persone e non la produttività. Quindi mi pare che non siamo sulla buona strada. Non facciamo niente per cambiare direzione: stiamo solo aumentando i nostri devices, siamo più collegati, lavoriamo di più ma non meglio. Dovremmo finalmente chiederci “che cosa stiamo facendo effettivamente per migliorare la nostra attività”. Quando si pone questa domanda, la maggior parte delle volte le risposte delle aziende non sono articolate, non sembrano realmente pensate. Le organizzazioni dovrebbero chiedersi: “Come facciamo a essere più creativi, come possiamo essere più efficaci nel prendere decisioni?”. Non sto dando soluzioni, insomma, ma cerco di stimolare domande perché le organizzazioni riflettano».

Arriveranno le risposte?

«Auspico che le persone che hanno responsabilità aziendali comincino a farsi le domande perché solo così si trovano le soluzioni, che non saranno tutte uguali: alcune saranno più avanzate, altre meno. Le consulenze cercheranno di colmare i gap. Ma occorre cambiare punto di vista: ogni mattina, quando si apre la propria agenda, è fondamentale iniziare a guardarla con gli occhi della produttività e chiedersi se ciò che si ha in programma sia davvero la migliore soluzione possibile».

La situazione che sta fotografando cambia se la si osserva dal punto di vista di generazioni diverse di lavoratori?

«I giovanissimi cercano di incidere, desiderano poter realizzare qualcosa di significativo, poter avere un ruolo visibile, d’impatto oltre che un equilibrio tra vita privata e vita lavorativa».

C’è una particolarità italiana nella situazione attuale del mondo del lavoro?

«In Italia, come nei paesi più mediterranei, continua a prevalere la logica del controllo piuttosto che della responsabilizzazione. I giovani lasciano un lavoro anche se non ne hanno trovato un altro; le aziende perdono persone anche quando non viene concesso loro di lavorare da remoto».

C’è una “ricetta” che funziona di più?

«Il lavoro che facciamo che ci consente di frequentare molte organizzazioni e quelle che stanno facendo una differenza significativa rispetto al passato sono tutte molto centrate sulla responsabilizzazione individuale. Responsabilizzare significa anche gratificare».

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