SOS manager e lavoratori, l’importanza del sostegno psicologico in azienda

Che il bisogno di sostegno psicologico sia aumentato esponenzialmente a causa del vissuto della pandemia è evidente, ma, ancor prima delle turbolenze psicologiche causate dal Covid-19, le dinamiche di Industria 4.0 e le rapide evoluzioni in atto nel mondo del lavoro hanno destabilizzato profondamente i lavoratori, ma anche i manager. Tensioni, paure, incertezze, frustrazioni, iper-connessione, incertezza, instabilità sono entrati sempre più prepotentemente nel vissuto di ciascuno sul lavoro, portando le imprese più illuminate a offrire tra i servizi di welfare anche il sostegno psicologico. Ma quali sono le problematiche più comuni che manager e lavoratori si trovano ad affrontare? Qual è il modo migliore per affrontarle? In che modo la consulenza psicologica può aiutare? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Primerano, psicologo e coordinatore del team di professionisti del SOS Manager, di Manageritalia Lombardia.

Giuseppe Primerano

«La pandemia ha messo a dura prova la tempra e la tenacia dei dirigenti che, in quell’occasione, hanno iniziato a manifestare un senso di forte precarietà nella gestione del proprio ruolo». Questo il punto di vista di Giuseppe Primerano, psicologo e coordinatore del team di professionisti del SOS Manager, di Manageritalia Lombardia, che si occupa di supporto psicologico per figure manageriali.

Perché questo senso di precarietà?

«Le organizzazioni sono sempre più caratterizzate da dinamiche molto veloci: in passato la popolazione dei dirigenti era abituata a vivere sempre nella stessa azienda, in un contenitore più ampio, relazionale e sociale più stabile. La velocizzazione degli ambiti di vita, lavorativi e non, stava già caratterizzando il periodo precedente la pandemia che, però ha acutizzato questa trasformazione. Accade, quindi, che il dirigente non è più totalmente identificato con l’azienda, ma grazie al ruolo che ricopre, deve sempre essere portatore di un’elevata professionalità, anche perché non sa quanto tempo resterà nell’organizzazione in cui si trova».

Sono, insomma, cambiati i paradigmi?

«Vent’anni fa si diventava dirigenti verso i quarant’anni o i cinquant’anni e si sapeva che lì si sarebbe andati in pensione. Oggi non è più così e il dirigente vive in uno stato di allerta (in cui si alternano, tra l’altro, anche i collaboratori) e, al contempo, in un contesto in cui la velocizzazione dei processi richiede anche una velocizzazione di adattamento che si traduce in stress».

Che effetti hanno i cambiamenti non preventivati?

«Sono come uno tsunami. Se è, infatti, vero che da un lato il cambiamento è sfidante, è altrettanto vero che le trasformazioni repentine portano ad un accumulo di criticità. I manager hanno le caratteristiche e gli anticorpi per reagire, ma ciò non toglie che avvertano l’impatto. La pandemia ha portato con sé, oltre che questa accelerazione, anche la cruda realtà della malattia e della morte. Realtà che hanno colpito, oltre tutto, molti dirigenti, restituendo un senso di fragilità diffusa. Sicuramente ciò si è avvertito in maniera più forte tra i manager del Nord – Lombardia, veneto, Emilia-Romagna – rispetto a quelli del Sud».

Cos’altro ha sentito di perdere, il manager, durante la pandemia?

«Il controllo. E quindi anche il suo ruolo. Ha avvertito un senso di isolamento. Alcuni dirigenti lo riferivano: raccontavano di stare tutto il giorno davanti al computer, magari in pigiama, e di fare della pause solo per aprire il frigorifero. Molti avvertivano un senso di ansia».

Su cosa vertono i focus di supporto, quindi?

«Innanzitutto, a riflettere sullo stress. Abbiamo proposto dei questionari che avevano proprio questo obiettivo: non si voleva fare una diagnosi, ma invitare a riflettere su ciò che si stava vivendo e attraversando. Accade spesso che i dirigenti – maschi soprattutto – siano recalcitranti a confrontarsi con aspetti psicologici che riguardano l’esercizio del loro ruolo; le donne hanno maggiore familiarità con il mondo emozionale.  Gli uomini tendenzialmente cercano di controllare le emozioni piuttosto che comprenderle. Il manager uomo non vuole chiedere aiuto perché teme di manifestare debolezza: per questi motivi il focus del progetto ruotava attorno alla presa di consapevolezza. Non appena si riesce a intraprendere questa strada, ecco che emergono spesso anche altri elementi, come le difficoltà familiari, magari nella relazione coi figli, e anche le insoddisfazioni legate alla carriera e ai rapporti interni alle organizzazioni. I disturbi si manifestano con ansia generalizzata, ma anche insonnia, tristezza pervasiva e inspiegata; in alcuni casi anche con rabbia, irritazione, frustrazione, inadeguatezza».

Come li si aiuta?

«Fornendo un ascolto, un colloquio che non ha, come dicevo, una valenza diagnostica, terapeutica o psicoterapeutica. Tra l’altro occorre ricordare che, essendo la popolazione manageriale italiana non giovanissima, ma vicina ai 50 anni, alla condizione di disagio lavorativo, spesso si affianca una difficoltà generale legata al ciclo della vita che cambia, ad un’età in cui si è portati a fare il primo bilancio esistenziale».

Qual è nello specifico il ruolo di Manageritalia?

«Certamente, il fatto di avere acquisito negli anni una certa esperienza rispetto alla popolazione dei dirigenti fa sì che si riesca a costruire una buona sintonia. La specificità di Manageritalia, dunque, sta molto nella capacità di permettere una maggiore identificazione e, quindi, di offrire un supporto costruttivo e mirato».

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