Il senso di inadeguatezza spinta dallo sviluppo tecnologico: alfabetizzazione necessaria per la funzione HR
La tecnologia avanza, ma cresce il senso di inadeguatezza nei lavoratori. L’HR è chiamato a colmare il divario tra innovazione e persone, con una nuova alfabetizzazione digitale, emotiva e culturale

C’è una nuova forma di disagio che attraversa i luoghi di lavoro. Non è solo la fatica fisica, né quella da burn-out classico o del bore-out di chi è in modalità “quiet quitting”. È piuttosto una sottile sensazione di inadeguatezza che avanza tra giovani talenti e manager esperti. Una voce interiore che sussurra: “Sto rimanendo indietro?”
Assistiamo spesso come spettatori all’innovazione tecnologica che procede a velocità vertiginosa. L’adozione dell’Intelligenza Artificiale, l’automazione dei processi, l’arrivo continuo di nuovi tool e piattaforme, promettono efficienza, velocità, competitività. Siamo tutti inclini a schierarci, chi è pro chi è contro, ad asserire che è naturale che sia così perché ci sono sempre stati i sostenitori e gli oppositori ai cambiamenti, e che non ci conviene essere tra i “contrari” perché avremmo la peggio. Tanti sentenziano anche senza essere troppo entrati nel merito o almeno essersi avvicinati a comprendere un minimo delle novità introdotte dallo sviluppo tecnologico. Raramente ci si ferma a chiederci: cosa lascia tutto questo nelle persone?
A testimonianza che il salto tecnologico si accompagna ad un “divario umano”, secondo il World Economic Forum (2023), nei prossimi cinque anni il 44% delle competenze lavorative cambierà. Non è solo una questione di aggiornamento e miglioramento continuo questa volta: è una rivoluzione che coinvolge identità professionali, sicurezza personale e, infine, senso di appartenenza.
Nel frattempo, l’OECD stima che il 60% degli adulti nei Paesi industrializzati non possieda competenze digitali sufficienti per affrontare questi cambiamenti. I lavoratori che fino a ieri erano perfettamente allineati ai bisogni del business, oggi rischiano di sentirsi fuori posto, perché non possiede competenze digitali di base sufficienti per affrontare l’automazione nei propri ruoli attuali.
Ecco, allora, che diviene comprensibile quanto rilevato da Microsoft: quasi la metà dei lavoratori globali si sente sopraffatta dalla tecnologia. La causa, però, non risiede nella mancanza di risorse bensì nelle chiavi emotive e culturali necessarie per interpretarla. Un senso di smarrimento che, se non viene accolto e gestito, mina il coinvolgimento e la fiducia.
Quando imparare non basta: l’inadeguatezza emotiva
Questo disagio raramente si manifesta apertamente. Piuttosto, si insinua nei comportamenti: si rifiuta il nuovo tool aziendale, si evita di partecipare a un workshop, si prova frustrazione davanti a una nuova piattaforma digitale. Il problema non è solo cognitivo. È emotivo.
Eppure, in molti contesti aziendali si continua a rispondere con soluzioni standard: corsi frontali, cataloghi di formazione, webinar a tappeto, essenzialmente per far fronte all’ accelerazione tecnologica e il suo effetto domino sulle competenze.
Ma il reskilling non può essere solo didattico: deve essere ampliato sul piano relazionale, psicologico e umano, in un contesto di un diffuso senso di inadeguatezza e un’emergenza emotiva sottovalutata, comprovato dallo studio di McKinsey (2023) che riporta che oltre il 70% delle iniziative di trasformazione digitale fallisce, in buona parte, perché il personale si sente non coinvolto o non preparato.
Il binomio Tecnologia e Inadeguatezza non è altro che il paradosso umano verso il digitale che avanza. Infatti, se da un lato la tecnologia evolve a una velocità vertiginosa, dall’altro la nostra capacità di adattamento in termini biologici, cognitivi e culturali, è molto più lenta, creando inevitabilmente questo senso di inadeguatezza diffuso, soprattutto tra chi non è nativo digitale.
L’esposizione ad un sovraccarico informativo non sempre aiuta perché l’abbondanza di dati non equivale necessariamente a una migliore conoscenza. Invece, l’incapacità di filtrare, comprendere e contestualizzare le informazioni digitali genera ansia, confusione e senso di impotenza.
Ecco che la tecnologia diventa come lo specchio dell’insicurezza, perché più promette efficienza, più ci sentiamo inadeguati se non siamo “ottimizzati”. Il confronto continuo con macchine che non sbagliano mai (o quasi) mina inevitabilmente la nostra autostima, con una illusione del controllo: l’essere umano crea strumenti per dominare il mondo, ma alla fine si trova dominato da essi. La realtà che abbiamo costruito è che l’algoritmo decide cosa vedere, l’intelligenza artificiale suggerisce cosa pensare e la connessione costante con la macchina ci isola.
HR: attivatori o spettatori?
Di fronte a questo scenario, il ruolo della funzione HR potrebbe ritornare ad essere centrale. Non basta gestire la transizione; bisogna, invece, guidarla con consapevolezza.
Secondo il LinkedIn Workplace Learning Report (2024), sebbene l’82% dei leader HR dichiari la formazione come priorità strategica, solo il 35% delle aziende adotta percorsi realmente efficaci e personalizzati. Addirittura, se si esaminano i dati Gallup (2023), solo 1 lavoratore su 3 si sente supportato nello sviluppo delle proprie competenze digitali.
Il rischio, quindi, che deve tenere presente l’HR, è di una forma di “nuova esclusione”, più subdola delle altre disparità diffuse tra le persone nelle aziende: quella cognitiva. Di fatto, chi non tiene il passo con la tecnologia viene emarginato, anche inconsapevolmente.
Un’alternativa potrebbe esserci: costruire una cultura digitale in cui le competenze hard si accompagnino a soft skill centrali come l’adattabilità, l’apprendimento continuo, la fiducia nell’errore. Si potrebbe andare verso una cultura digitale umanistica.
Il ché segnerebbe l’inizio di una nuova epoca in cui la formazione possa diventare un dialogo più che una trasmissione di competenze e un processo continuo più che un evento o una serie di eventi. Il tutto dovrà avvenire in ambienti psicologicamente sicuri, in cui i lavoratori si sentano autorizzati a non sapere, a chiedere, a imparare.
È necessario un nuovo coraggio: quello di essere proattivi e propositivi, in un ambiente aziendale consono, in cui si ammette di non sapere e di sbagliare per imparare. Ogni persona deve, tuttavia, partire dalla consapevolezza che non vi è più l’azienda “mamma che ti coccola”, che pensa a quale sia il miglior programma formativo o che individua le necessità di un supporto di coaching o mentoring. Deve essere la singola persona a farsi le domande e chiedere ciò che gli serve.
La domanda importante non è: “Quanto siamo digitali?”, ma: “Quanto ci sentiamo adeguati al mondo che cambia?” È un esercizio importante di presa di coscienza che presuppone di evitare di scadere nella solita sterile lamentela.
In tutto ciò, potrebbe esserci un valido alleato: chi lavora nelle HR.
Oggi la responsabilità delle HR dovrebbe essere chiarita: essere ponte tra l’accelerazione della tecnologia e i bisogni profondamente umani delle persone. L’HR non può più limitarsi a fornire strumenti, ma deve accompagnare. Non può più delegare alla tecnologia il compito di fare evolvere le persone. Serve il coraggio di permettere di sentirsi umanamente bisognosi, in una narrativa diffusa che, invece, sembra volerci per forza anti-fragili, resilienti, quasi sovrumani.
Se vuole ottemperare a questo ruolo di facilitatore e sostenitore, l’HR deve prima interiorizzare quel processo di alfabetizzazione sulle tematiche digitali, partendo dalla consapevolezza che per aiutare efficacemente le persone, in questo processo di trasformazione, deve consapevolmente riconoscere le proprie lacune, esimersi di parlare di certe tematiche digitali prima di concludere un processo di apprendimento per sé, utile per aiutare gli altri.
La trasformazione digitale impone, inoltre, all’HR un’attenzione particolare a chi delle generazioni Boomers e X sono meno duttili ad utilizzare applicazioni o sistemi integrati digitali: la differenza generazionale deve essere un punto di attenzione, visto che la situazione di avere fino a cinque generazioni in azienda durerà ancora per una decina d’anni circa. Il tema della inclusione generazionale deve essere già ora nell’agenda dei programmi D&I, ad oggi troppo solo focalizzati sul tema del genere.
Il fatto che l’AI aiuterà il lavoro quotidiano è evidente ma che questo tempo libero sarà utile per pensare, come raccontano chi vuole venderla alle aziende, non è realistico: l’adozione dell’AI è proposta come incremento della produttività, per cui, semmai, aumenteranno le attività da svolgere, a discapito di un benessere generale. L’HR ha un altro compito fondamentale: mantenere attivi e diffusi i programmi di Welfare ed agire con programmi mirati a mitigare lo stress derivato dalla tecnologia.
Il 37% dei lavoratori europei, infatti, ha riportato sintomi di stress, ansia o depressione legati all’uso delle tecnologie digitali, il 33% ha notato un aumento del carico di lavoro a causa della digitalizzazione.
In un tale contesto sono da leggere i riscontri forniti dall’EU-OSHA (Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro). La digitalizzazione può generare rischi psicosociali significativi, tra cui: incertezza lavorativa, senso di precarietà, confini sfumati tra vita privata e lavoro, dovuti alla connettività costante. L’HR dovrà progettare ambienti di lavoro in cui vengono mitigate le principali fonti di stress, quali
- l’isolamento sociale, accentuato dal lavoro a distanza (o non in presenza) e dalla riduzione delle interazioni umane,
- l’eccessivo controllo algoritmico, cioè la ridotta autonomia decisionale dovuta all’adozione di una supervisione digitale
- il timore di obsolescenza che nasce dalla grande paura di perdere il lavoro a causa dell’automazione.
Ci si chiede continuamente se l’AI cancellerà dei posti di lavoro. Già se ne stanno dando delle risposte: sì. Ovviamente, direi: l’investimento che le aziende faranno dovrà ripagarsi. Come? Storicamente grazie ad una riduzione del costo del lavoro. Alcune aziende delle realtà oltreoceano hanno iniziato a adottare AI e non assumere più, anche i giovani che si affacciano al mondo del lavoro e che avrebbero un costo limitato.
Se l’HR riuscirà a mitigare il crescente disagio “sociale” all’interno dell’organizzazione, dalla gestione dello stress e paura, al gestire uscite di personale e partire anzitempo con un programma di riqualificazione di quanti saranno in esubero, avrà sicuramente assunto un ruolo sociale importante.
Sono molte, quindi, le tematiche su cui la funzione HR sarà chiamata a dare un valido contributo, con programmi che saranno apprezzati perché utili alla sostenibilità aziendale. Finalmente c’è un’ampia opportunità per l’HR di non essere focalizzato su temi come certificazioni o programmi lontani dal day by day utile al business, per tornare, invece, ad esserne veramente un partner. Meno etereo, più pragmatico, più nel business e meno staff, per guidare efficacemente una educazione digitale come diritto e dovere delle persone.
La nuova alfabetizzazione dovrà essere, tecnica ed etica, critica e relazionale, non solo per saper utilizzare uno strumento, ma per capirne l’impatto sul singolo individuo e sulla intera organizzazione.
Laureato in Ingegneria Elettronica, Nicola Ladisa ha maturato un percorso professionale in Procter &Gamble, Pirelli e Prysmian in ambito Supply Chain, HR e Organization. Dal 2013 al 2024 è stato Direttore HR di De Agostini Editore, Dea Capital e della Holding del Gruppo. Autore, relatore in convegni HR, è attualmente Professore a contratto all’Università IULM.