Dire no a un candidato: quando il rifiuto diventa un danno

In fase di selezione, un “no” mal gestito potrebbe costare più di quanto si pensi. Tra ghosting, rinunce e seconde scelte dimenticate, le aziende rischiano di bruciare talenti. Ecco perché saper comunicare un rifiuto è oggi una strategia di sopravvivenza

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Come si dice no a un candidato? O meglio, perché quello che potrebbe essere un arrivederci diventa sempre un addio? Nel 2024, uno dei biscotti più amati e venduti al mondo, l’Oreo, ha sorpreso la Spagna con una campagna dal sapore amaro: “Adiós España”. Sui maxi cartelloni delle città campeggiava un messaggio che suonava come una rottura: “Abbiamo il cuore a pezzi, ma il solito Oreo se ne va”. Davvero il celebre biscotto al cacao sarebbe scomparso dagli scaffali dei supermercati spagnoli?, si chiedevano gli estimatori (tanti) allarmati. In realtà, si trattava di una “semplice” operazione di marketing per lanciare una nuova ricetta e un nuovo packaging. Un addio che in realtà era un “ci rivediamo, ma migliori di prima”.

Dal marketing al mondo del lavoro, così come Oreo ha trasformato un apparente addio in un rilancio, ci sono ‘no’ ai candidati che potrebbero diventare un arrivederci, se gestiti con la giusta comunicazione.

Invece, quando un’azienda decide di non proseguire con un candidato, pur riconoscendolo valido, la relazione si interrompe per sempre. Un peccato, che in alcuni casi si rivela un vero danno per l’azienda stessa, perché quel potenziale sprecato potrebbe diventare, anche prima del previsto, molto utile.

Non dire no

Scegliere il candidato giusto è una decisione complessa per chi si occupa di selezione e spesso ci si trova con due o tre persone con competenze solide, un curriculum impeccabile e magari lo stesso potenziale. Poi però entrano in gioco fattori meno visibili ma altrettanto determinanti, il momento organizzativo, le priorità del team, l’equilibrio tra profili già presenti o semplicemente l’allineamento culturale con l’azienda. In molti casi, il candidato è tecnicamente e umanamente adatto, ma non rappresenta la risposta esatta al bisogno specifico di quel momento.

È soprattutto in questi casi, quando quel “no” sarebbe potuto essere un sì, ch andrebbe detto nella maniera giusta, perché i vantaggi di “tenere aperta la porta” sono tutt’altro che banali.

Se il candidato sparisce

Paradossalmente, mentre le aziende si interrogano su come dire ‘no’, oggi spesso sono i candidati a sparire per primi. Questo ribalta la prospettiva e rende ancora più importante costruire relazioni solide anche dopo un rifiuto. Secondo un report di SHRM (Society for Human Resource Management) del luglio 2025, il 41% delle aziende riferisce che i candidati fanno ghosting durante il processo di selezione, ossia spariscono. Nel Regno Unito, la Chartered Institute of Personnel and Development (CIPD) segnala che circa il 27% dei datori di lavoro nell’ultimo anno ha sperimentato la brutta esperienza di nuovi assunti che non si sono presentati al loro primo giorno di lavoro (“no-show”).

“In Italia si tende a percepire che il fenomeno dei candidati che scompaiono sia limitato, ma in realtà la sua incidenza è in crescita. E non riguarda più soltanto i più giovani: oggi accade sempre più spesso che le persone si rendano irreperibili persino dopo aver ricevuto o addirittura firmato una lettera di assunzione. Questo crea una nuova incertezza per le aziende: anche quando la selezione è formalmente conclusa, finché il candidato non si presenta effettivamente sul posto di lavoro, non si può mai essere davvero sicuri” commenta Paolo Iacci, professore presso l’Università degli studi di Milano, presidente di Eca Italia e presidente del Comitato scientifico AIDP (Associazione Italiana per la Direzione del Personale).

Questa perdita di fiducia reciproca tra aziende e candidati, visibile tanto nel ghosting quanto nel modo in cui si chiudono le selezioni, mostra quanto la comunicazione nel recruiting sia fragile da entrambe le parti.

I talenti dimenticati

La vera domanda, da parte dell’azienda, dovrebbe essere, ancor prima di comunicare il rifiuto, “come gestire gli altri candidati finalisti che restano in sospeso?”. Quando si hanno due o tre profili idonei e se ne sceglie uno per una mera questione di “affinità”, con un no senza troppe spiegazioni  si perdono definitivamente gli altri. E se poi il candidato prescelto sparisce o rinuncia, ci si ritrova senza alternative praticabili.

“È un problema concreto, che incide sulla gestione dei tempi e sulla sicurezza dei processi di selezione” spiega Iacci, che sul tema è intervenuto anche in un articolo (Perché a nessuno piace la medaglia d’argento, Harvard Business Review Italia) in cui analizza come il meccanismo psicologico che entra in gioco è quello del pensiero controfattuale, cioè quella tendenza che abbiamo a chiederci “come sarebbe andata se avessi scelto diversamente?”.

Questo tipo di pensiero non arriva solo dopo una decisione, ossia quando ci pentiamo o ci chiediamo se abbiamo fatto bene, ma anche prima, mentre stiamo ancora decidendo. In questi casi, per l’organizzazione sarebbe logico e anche economicamente conveniente rivolgersi al secondo classificato e invece, come spiega Iacci: “Il secondo arrivato ha vissuto la sconfitta come un rifiuto e ha ‘usato’ il pensiero controfattuale per giustificare la sconfitta. Come nella favola di Fedro della volpe e l’uva, l’occasione non gli appare più così interessante. Analogo ragionamento vale anche per l’azienda, che tende a non considerare più il “silver medalist”, anche se era arrivato secondo solo per una sfumatura”.

Il valore di un rifiuto ben gestito

La “worst practice” di liquidare gli altri candidati finalisti per poi trovarsi, come può capitare, con un pugno di mosche, è piuttosto diffusa. Se il candidato che ha incassato un no non è disposto a tornare, anche le aziende danno quasi per scontato che in caso di no show da parte del prescelto, si debba tornare al via e ricominciare da capo la selezione.

“È un controsenso” avverte Iacci. “Primo, perché si perdono tempo e risorse: il processo di selezione è costoso e dovrebbe essere ottimizzato. Secondo, perché, se la prima volta hai già fatto una buona cernita, il mercato lo hai di fatto già mappato. Che senso ha ripartire da zero per incontrare candidati probabilmente meno adatti di quelli che hai già valutato? Il problema è che non puoi semplicemente tornare dal secondo classificato: se percepisce di essere una scelta di “serie B”, difficilmente accetterà”.

In certi casi si può evitare un “no” diretto, che rischia di chiudere definitivamente ogni rapporto con un candidato valido. Si potrebbe, per esempio, dire che l’azienda ha deciso di orientarsi su un profilo diverso o che la ricerca è stata momentaneamente sospesa per una riflessione interna. Si tratta di affermazioni che non tradiscono l’onestà comunicativa dell’azienda.

Gratificare il candidato, in questi casi, significa riconoscere il valore del suo percorso, fargli sentire che la sua candidatura è stata apprezzata e che il suo profilo resta interessante per l’azienda. Un candidato rispettato e valorizzato, anche se non scelto, conserverà un’immagine positiva dell’organizzazione e potrà tornare utile in futuro” conclude Iacci.

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