Transizione di genere in azienda: la storia di Patrizia e il valore dell’inclusione

Attraverso l’esperienza di chi ha deciso di fare la transizione di genere, vi raccontiamo come il coraggio individuale e la responsabilità collettiva possano incontrarsi per costruire luoghi di lavoro più umani, rispettosi e realmente inclusivi

Transition

Negli ultimi anni il tema dell’inclusione ha assunto un ruolo sempre più centrale nelle politiche aziendali, ma è quando i valori e le dichiarazioni d’intenti si traducono in gesti concreti che si misura davvero la cultura di un’organizzazione. 

In questa intervista raccontiamo la storia di Patrizia (il nome è di fantasia per tutelare la sua privacy, ndr.), che lavora per un’azienda italiana a partecipazione statale di primaria importanza – con circa 80mila assunti con contratto italiano e ambienti di lavoro multiculturali – e che ha intrapreso un percorso di transizione di genere, trovando in azienda il giusto supporto alla sua decisione di vita e colleghi che hanno saputo accompagnare il cambiamento con sensibilità, rispetto e competenza. 

Parlare di identità di genere sul luogo di lavoro significa infatti affrontare un tema complesso, che intreccia dimensioni personali, emotive e professionali. Spesso, chi decide di vivere apertamente la propria identità si trova a dover gestire paure e incertezze: il timore del giudizio, la possibilità di discriminazioni, o semplicemente la difficoltà di trovare parole e spazi adeguati per condividere il proprio percorso. In questo senso, il ruolo dell’azienda diventa cruciale: costruire un ambiente sicuro e rispettoso non è solo una questione etica, ma un investimento sulla serenità psicologica e sulla produttività delle persone.

Un percorso condiviso

Patrizia lavora all’interno di un team nel settore delle risorse umane: “Il mio team si occupa di supportare le organizzazioni che entrano a far parte del nostro gruppo a omologarsi a quelle già presenti; nel dettaglio guidiamo le singole realtà verso il cambiamento, dalla stesura dei documenti programmatici alla messa in pratica della teoria per arrivare all’allineamento.
Quando ho maturato la decisione di fare la transizione di genere a livello personale, ho iniziato con costanza a introdurre nel mio ambiente lavorativo degli ‘indizi’, dei piccoli dettagli che potessero indicare che stavo facendo un cambiamento”. 

“Credo – aggiunge – sia stato fondamentale il fatto che io abbia dato da subito un’idea chiara, senza tentennamenti, di chi volevo essere. Contemporaneamente, è stato importante anche procedere con perseveranza ma senza fretta, per dare a tutti il tempo di capire cosa stava succedendo.
Con estrema naturalezza ho deciso poi di assumere l’identità femminile anche in azienda benché avessi ancora i documenti maschili, con tutte le possibili difficoltà e imbarazzi del caso, a iniziare per esempio dalla scelta del bagno da usare. Il supporto delle colleghe è stato di grande aiuto: nel caso della toilette, per esempio, loro all’unanimità mi hanno invitato a usare quella femminile”. 

Come l’azienda ha supportato la transizione

Dopo la fase di inclusione, Patrizia trova il coraggio di affrontare le istituzioni intraprendendo il tortuoso e impegnativo percorso medico, psicologico e legale  di transizione vera e propria e dopo circa tre anni arrivano i nuovi documenti e il cambio di genere a livello anagrafico.

“Dopo la sentenza del tribunale civile favorevole alla mia transizione, ho avvertito i vertici aziendali. Nel giro di cinque giorni dalla ricezione del mio nuovo codice fiscale e della mia nuova carta d’identità, l’amministrazione ha aggiornato tutto ciò che mi riguardava con la mia identità femminile. Inoltre, tra i webinar e il materiale online dedicati alle sfere di salute e benessere che l’organizzazione mette a disposizione dei dipendenti, ce ne sono alcuni che trattano proprio l’ambito dell’inclusione, spiegando per esempio quali approcci assumere nei casi più delicati”.

Cambiare sesso, si può fare carriera?

“Certamente il ruolo di chi decide di fare una transizione conta: io lavoravo già in un ambito, quello delle risorse umane, a forte maggioranza femminile. Se avessi avuto delle mansioni più prettamente maschili, il processo avrebbe potuto essere un po’ più difficoltoso. Anche lo smart working ha giocato a favore: lavorare spesso da remoto tende a diminuire i conflitti tra i colleghi, ad ammorbidirne le relazioni. Infine, anche dal punto di vista della carriera, la mia decisione non ha provocato ‘scossoni’: attualmente la mia posizione lavorativa è allineata a quella delle colleghe e l’ultima promozione l’ho ricevuta già con la nuova identità” conclude Patrizia.

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