Talenti internazionali: dall’expertise alla trasformazione organizzativa

Esperienze all’estero, competenze che rientrano, culture organizzative che si trasformano. Ne parla Andrea Benigni, CEO di ECA Italia, nel suo nuovo libro “Talenti Internazionali” (FrancoAngeli) e in questa intervista

Le aziende che crescono all’estero non sono solo quelle che esportano o aprono filiali, ma anche quelle capaci di mobilitare competenze e visione. In quest’ottica, la gestione internazionale dei talenti, pur essendo una funzione tecnica rilevante, diventa soprattutto una leva di trasformazione organizzativa.

Da questa consapevolezza nasce Talenti Internazionali – Strategie e strumenti di global mobility, il nuovo libro di Andrea Benigni, CEO di ECA Italia. Pubblicato da FrancoAngeli, il volume rappresenta la sintesi di oltre trent’anni di esperienza sul campo e di un dialogo costante con le Direzioni HR di numerose imprese italiane. In questa intervista, l’autore ripercorre le origini del progetto editoriale e invita a riconsiderare la mobilità internazionale con un approccio strategico e culturale nuovo.

Da dove è nata l’esigenza di scrivere un libro sui talenti internazionali?

La risposta potrà sembrare scontata: “non me l’aspettavo, è capitato tutto all’improvviso”, ma, in effetti, è andata proprio così.
Da anni ho un solido rapporto di scambio professionale con il professor Luca Solari, Ordinario presso Dipartimento di Organizzazione Aziendale della Facoltà di Scienze Politiche Università Statale Milano. Luca, insieme a Paolo Iacci, presidente di ECA Italia, la società di cui sono amministratore delegato, cura da tempo la direzione scientifica della collana HR di Franco Angeli.

Durante un pranzo di lavoro è emersa l’idea di un libro sui talenti internazionali e gli strumenti relativi alla loro gestione. La proposta, per me molto stimolante, è stata quella di provare a offrire non un nuovo manuale tecnico, ma una sorta di osservatorio, uno strumento agile e fruibile per chi lavora nelle Risorse Umane, funzionale ad aprire consapevolezza su un tema complesso, non sempre inquadrato in via preventiva dalle Direzioni HR.

Come si inserisce questo libro nel percorso della consulenza sulla mobilità internazionale in Italia? E cosa lo distingue rispetto ai manuali tecnici pubblicati in passato?

Il primo manuale sulla gestione degli expat in Italia risale alla metà degli anni Novanta ed è stato pubblicato proprio da ECA Italia, l’azienda in cui lavoro da quasi trent’anni. Quel volume – “Adempimenti contributivi e previdenziali per la gestione degli espatriati” di Leonardo Cuzzocrea e Renato de Chaurand – è stato, e in parte è ancora oggi, un riferimento per chi si occupa di mobilità internazionale, ed è stato seguito da altre pubblicazioni di grande valore firmate da professionisti impegnati nella consulenza in questo ambito.

Volendo fare qualcosa di diverso, ho immaginato che la complessità della gestione degli espatriati potesse emergere non solo attraverso lo sguardo del consulente, ma anche tramite quello degli HR che ho incontrato in questi anni. L’obiettivo non era semplicemente “scaricare a terra” un expertise tecnico, ma valorizzare anche decine di incontri, punti di vista e confronti avuti con le direzioni HR e gli HR Dept di qualche centinaio di aziende italiane.

La premessa del libro affronta il tema della narrazione pubblica sul lavoro all’estero. In che senso si fa ancora confusione tra “cervelli in fuga” e “cervelli in movimento”?

Le responsabilità sono diverse. La prima riguarda una narrazione che, in questa fase storica, si muove seguendo logiche polarizzate e spesso funzionali a un posizionamento più tipico di un osservatorio politico che non aziendale. D’altro canto, molti giovani lasciano l’Italia per lavorare all’estero e il tema dei “cervelli in fuga” è concreto, tangibile, tocca corde sensibili di un Paese che vive difficoltà strutturali. Come spesso accade, però, noi italiani tendiamo a raccontare questi fenomeni come se fossero esclusivamente nostri, dimenticando che se guardassimo con maggiore rigore e senso critico lo scenario internazionale, scopriremmo che gran parte dei giovani occidentali – in particolare laureati o altamente qualificati – considera l’esperienza internazionale un passo naturale, quando non una vera e propria aspirazione.

Tanto più se questa esperienza si integra con un percorso di studi che permette di avere spendibilità contrattuale nel Paese ospite individuato come possibile meta di espatrio o di assegnazione internazionale, soprattutto se si lavora presso un’azienda multinazionale che ha nella mobilità internazionale del lavoro un fattore critico di successo. 

Quali elementi differenziano l’Italia da altri Paesi europei nella capacità di attrarre talenti internazionali?

Paesi come Francia, Regno Unito, Germania, Paesi Bassi, Spagna, pur vedendo molti loro talenti fare esperienze all’estero, si distinguono nettamente dall’Italia per una caratteristica fondamentale: sono a loro volta paesi target per i talenti internazionali, una circostanza quest’ultima che accade molto meno per l’Italia. È qui che la narrazione, spesso un po’ stucchevole, si inceppa. 

Eppure il nostro Paese, con il decreto internazionalizzazione del 2015 (governo Renzi), poi confermato e potenziato nel 2017 (governo Gentiloni) e successivamente ulteriormente sviluppato con il Decreto Crescita (governo Conte I), ha creato le condizioni per rendersi uno dei Paesi fiscalmente più attrattivi in Europa per lavoratori qualificati, sia stranieri sia italiani di rientro. Le tre tappe normative, legate ad altrettante leggi di bilancio, hanno via via introdotto importanti abbattimenti della base imponibile: prima del 30%, poi del 50% e successivamente del 70%. La legge di bilancio 2024 (governo Meloni) ha riportato questa percentuale al 50%, irrigidendo alcune condizioni e vincoli di accesso. Anche così, però, le condizioni fiscali resterebbero competitive rispetto alle misure analoghe presenti in altri Paesi europei come Francia, Paesi Bassi, Danimarca e Spagna che da tempo adottano una politica di attrazione dei talenti che fa della leva fiscale una variabile chiave.

Non abbiamo inventato nulla, ci siamo adeguati a un trend normativo internazionale, in particolare europeo. Se, nonostante questi incentivi, arrivano ancora pochi stranieri qualificati o pochi italiani rientrano, è verosimile che il problema sia più ampio: il nostro sistema Paese fatica a offrire a un talento internazionale una prospettiva, un progetto. Le nostre imprese non sono più “captive” come un tempo e l’Italia risulta poco interessante per un giovane francese, spagnolo, tedesco, americano. In Italia è fantastico venirci in vacanza, molto meno per lavorare: è ciò che dicono molti manager internazionali, e basta avere un network di contatti globali o viaggiare per lavoro per verificarlo. In parallelo, lavorare su scala internazionale fa crescere, amplia lo sguardo, espone a punti di osservazione diversi dal proprio. 

Qual è il valore che un’esperienza professionale all’estero può generare, sia per la persona sia per l’organizzazione al momento del rientro?

Se si esce dal “guscio” europeo e ci si sposta per esempio verso l’Asia o il Sud-est asiatico, si mettono da parte gli “occhiali occidentali” e si comprende più facilmente che “vivere in modo diverso significa semplicemente… “vivere in modo diverso”. 

Il manager o lo specialista internazionale che vive un’esperienza professionale all’estero  diventa più flessibile, tollerante, capace di stare con gli altri, di comprenderli e, alla fine, di fare business insieme a loro. Impara a far crescere l’azienda per cui lavora, molto spesso una consociata straniera di un capogruppo italiano, dando benefici, anche molto importanti. E quando rientra in Italia dopo un periodo di assegnazione internazionale ecco che quelle esperienze possono diventare practice condivisa con i colleghi che lavorano presso l’headquarter, allargando l’orizzonte e la visione generale della propria organizzazione. Il cervello, per tornare a questo concetto, non era andato in fuga, era ed è un cervello in movimento che ora restituisce un patrimonio concreto all’organizzazione centrale. Ecco perché quando si parla di expats che si muovono seguendo i piani di internazionalizzazione delle proprie aziende si deve parlare di evoluzione. 

Guardando oltre il singolo percorso manageriale, cosa rivela l’analisi del fenomeno a livello sistemico e generazionale? 

Una delle esperienze più innovative per me nello scrivere questo libro è stato scoprire una diffusa ricerca accademica presente presso molti database di università estere, una ricerca focalizzata sui temi della “brain drain vs la brain circulation”. Dovremmo essere maggiormente capaci di analizzare criticamente il fenomeno del lavoro all’estero, tanto più andando a vedere da quali regioni si evidenziano le maggiori partenze per esperienze internazionali: Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Veneto, Sicilia. Quattro regioni su cinque sfiorano la piena occupazione, molti ragazzi laureati presso prestigiose università italiane di queste regioni scelgono lo step internazionale come prima o seconda esperienza professionale, da un lato significa che molte aziende italiane offrono soluzioni di sviluppo attraverso l’invio all’estero di questi ragazzi mentre dall’altro ve ne sono molti che vedono nella dimensione internazionale una opportunità per evolvere il loro pensiero strategico ed optano invia autonoma per un lavoro oltre frontiera. 

Quali cambiamenti strutturali dovrebbe affrontare l’Italia per essere più attrattiva e coerente con le esigenze delle nuove generazioni?

Il nostro sistema paese dovrebbe capire come posizionarsi, rendersi maggiormente attuale, comprendere e non giudicare la Gen Z che tra poco prenderà le redini della classe dirigente. È indubbio che l’Italia soffra da anni un problema strutturale di salari bassi e che questo possa spingere molti giovani a guardare verso mercati più competitivi, dall’Europa occidentale fino agli Stati Uniti e ad alcuni hub asiatici come Shanghai, Singapore, Hong Kong ovvero Dubai, Abudhabi, Kuala Lumpur e così via.

Tuttavia, ridurre questo tipo di analisi al solo tema retributivo sarebbe una semplificazione: il costo della vita in molte di queste destinazioni è elevatissimo e la decisione di partire non può essere (e realisticamente non è) schiacciata su una variabile economica, spesso anche figlia della responsabilità della nostra classe dirigente, politica e di governance aziendale degli ultimi 20 anni. La “coda” dei millennials e la Gen Z viaggia, parla inglese con naturalezza (e clamorosamente meglio di Gen X e Gen Y), vive in un ecosistema digitale globale e considera l’esperienza internazionale uno “step ahead” del proprio percorso. Avere una visione aperta significa osservare questi movimenti con spirito critico, riconoscendo che il confronto tra “cervelli in fuga” e “cervelli in movimento” è un banco di prova prezioso per capire come la società – e il lavoro – stiano cambiando.

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