A tu per tu con le Top HR Women: Raffaella Maderna

«Auspico una sinergia tra le donne di talento, la politica e le organizzazioni sociali e aziendali». Raffaella Maderna, People and Communication Director per Lundbeck Italia, riflette su inclusion e diversity, convinta del ruolo di “facilitatore” dell’hr.

raffaella maderna

Da Whirlpool a Lundbeck Italia passando per Pirelli e Cisco. Raffaella Maderna, People and Communication Director per Lundbeck Italia, opera in un contesto molto aperto, emanazione della casa madre danese. «Sono diventata dirigente appena rientrata dalla maternità; ho imparato a osservare gli altri per arricchire la mia esperienza di HR, ruolo chiave per il business, che per sua natura non deve “peccare” di protagonismo, ma supportare i talenti a emergere».

Dottoressa Maderna, quanto hanno influito i suoi studi nell’evoluzione della sua carriera?

«Mi sono laureata all’Università Cattolica in Scienze Politiche con indirizzo politico-sociale e ciò mi ha permesso di affrontare ambiti diversi, appassionandomi sia allo studio dell’economia che a quello di sociologia e psicologia, cimentandomi con materie che mi hanno consentito di approfondire aspetti socio-culturali ed umanistici. Ho potuto anche seguire uno stage prima di laurearmi, in Whirlpool, molto operativo e ben organizzato, dove ho incontrato persone che mi hanno dato molto sia in termini professionali che personali. Già lì ho capito che il contatto con le persone e l’area del personale mi entusiasmavano. Poi, dopo la laurea, ci sono stati lo stage e l’assunzione in Pirelli: una bella opportunità dato che si trattava di una grande azienda multinazionale, dove ho fatto un focus su selezione, formazione e sviluppo. All’epoca i ricercatori stavano lavorando alla trasmissione dati su fibra ottica: ero in questa business unit che ho visto crescere e svilupparsi in modo esponenziale. Ricerca e produzione dove l’innovazione si univa alla tecnologia di ultima generazione. Ho poi vissuto l’acquisizione da parte di Cisco proprio di questa business unit e ciò ha voluto dire passare da una multinazionale italiana a una americana, caratterizzata da un mindset più internazionale: stimolante senz’altro per una giovane professionista, dall’altro più lontana dal mio approccio dal punto di vista della gestione del personale. Gli americani erano più settoriali, e io – invece – sono più attratta dalla possibilità di gestire progettualità a 360 gradi, a tutto tondo, dalla progettazione all’attuazione. Successivamente un’esperienza lavorativa in una multinazionale manifatturiera, Global Cap, a diretto riporto dell’amministratore delegato, ha arricchito ancor di più la mia esperienza e ha molto facilitato il passaggio, nel 2003, in Lundbeck Italia, azienda pharma leader nell’ambito delle neuroscienze. Prima esperienza come manager in un team direzionale».

Cosa è avvenuto qui?

«La funzione HR in Lundbeck Italia è nata con me e quindi sono riuscita in qualche modo a plasmarla, portando tanta innovazione, progettualità customizzate. Ho creato la piattaforma HR: non c’era un sistema di performance management, non c’era un iter di selezione chiaro, insomma abbiamo definito in modo più strutturale processi HR».

Sarà stato entusiasmante…

«Moltissimo. E, dopo 19 anni, sono ancora qui! Prima di Lundbeck, in otto anni avevo cambiato quattro aziende… avevo bisogno di capitalizzare le mie esperienze. Detto ciò, in Lundbeck, ho avuto una grande opportunità e mi sono sempre sentita valorizzata come persona, come donna».

Si è sentita meno valorizzata nelle esperienze precedenti?

«No, in realtà. Non ho mai avuto la percezione che qualcosa mi fosse stato precluso. Sebbene il mio arrivo in Lundbeck sia coinciso con un’evoluzione della mia vita personale, dato che dopo un anno mi sono sposata e due anni dopo ho avuto un figlio. Senz’altro l’ambiente aziendale era molto aperto: abbiamo sempre avuto un buon livello di flessibilità anche se non esisteva lo smart working. Erano ben chiari gli obiettivi, le progettualità e le priorità. Certamente giravo molto, soprattutto in Italia, per conoscere bene le persone, per affiancare gli informatori, per comprendere al meglio il loro lavoro e le loro esigenze, per presenziare alle riunioni commerciali, agli eventi aziendali. Ma ho sentito sempre molta fiducia da parte dei miei responsabili e dall’ambiente in cui lavoravo».

Si tratta, comunque, di un’azienda che è emanazione di una danese: questo può aver influito?

«Senz’altro la cultura danese è molto supportiva: sono consolidate tutte le tematiche tipiche di una cultura democratica, dove la leadership è partecipativa, dove i concetti di inclusione e di uguaglianza sono sentiti. La Danimarca è uno dei paesi più felici al mondo: welfare, accoglienza attenzione e cura della persona sono pilastri. E la politica, non solo aziendale ma delle istituzioni, è orientata a questi aspetti».

Anche sul fronte del work-life balance…

«Sì. I danesi sono al lavoro presto al mattino; alle 11.30 mangiano e alle 16 sfrecciano a prendere i figli a scuola in bicicletta, uomo o donna senza differenza. Non sempre le organizzazioni di altri paesi hanno una mentalità cosi aperta… Le riunioni con i danesi sono concentrate nella mattina, non abbiamo fuso orario e quindi si riesce a lavorare in modo organizzato. C’è molto rispetto e ci si accorda su tutto parlando apertamente. E Il tema della diversity e dell’inclusion, che sta entrando nell’agenda italiana, nella nostra azienda è da tempo una realtà. Il 57% delle nostre persone sono donne a tutti i livelli. Il management team attualmente è composto da sei donne e da un uomo; l’amministratore delegato è una donna, promossa in questo ruolo a 39 anni. Io stessa sono diventata dirigente a 36 anni, appena rientrata dalla maternità, di certo quindi valorizzata e non penalizzata. Ho amiche e colleghe in altre aziende e per loro non ha funzionato allo stesso modo: professioniste molto competenti che sono state promosse alla dirigenza non prima dei 45 anni… fossero stati uomini sarebbe stato così?».

Cultura diversa, approcci diversi: servono le quote rosa?

«Donne in gamba ne abbiamo tantissime; la cultura deve fare emergere questi talenti. Manca, però, un’infrastruttura istituzionale che renda “normale” la valorizzazione del talento delle donne. Al di là delle quote rosa, infatti, la donna deve avere la stessa opportunità dell’uomo di mostrare le proprie competenze. Dovrebbe instaurarsi una sinergia tra le donne di talento, la politica e le organizzazioni sociali e aziendali: così, andando nella stessa direzione, si riesce a entrare in un circolo virtuoso. Se questi tre elementi non si incastrano, la situazione non può evolversi. Ovviamente esistono le aziende più illuminate e quelle totalmente disinteressate. Per fare un esempio, su un altro ambito, in cui si innesca un circolo virtuoso: in Francia le aziende erogano donazioni ad associazioni di volontariato, è la politica che lo impone. Ciò permette di rendere profittevoli determinate associazioni. In Italia si fa tanto volontariato ma non esiste questo legame con il mondo delle aziende e della politica. Se così fosse le associazioni potrebbero fare ancora di più di ciò che fanno. La stessa cosa vale per ciò che riguarda il tema del femminile. Scuola, politica e aziende devono sostenere le donne, andare nella stessa direzione, perché il cambiamento possa avvenire. In Italia oggi il tema della diversity è di genere e anche generazionale, tra l’altro. Abbiamo aziende con persone appartenenti a cinque generazioni, c’è ancora tanto da fare e ancora tanti temi di inclusion da affrontare».

E cosa si fa?

«Noi ad esempio abbiamo fatto dei focus per aiutare la comunicazione inter e intra generazionale, che non è scontata e quindi può essere anche un freno alla collaborazione. Oggi nelle nostre organizzazioni abbiamo un mix generazionale che porta ad avere all’interno dello stesso team fino a cinque generazioni diverse. Stile di leadership, valori, cultura, stili relazionali completamente differenti. Stessa cosa per la differenza di etnia. I giovanissimi di oggi sono più abituati, hanno una maggiore apertura per certi aspetti ma per altri no».

In questi casi conta più la formazione o l’esperienza sul campo?

«Tutto serve e soprattutto non dare nulla per scontato. Confrontarsi con gli altri serve moltissimo, anche con persone che operano in funzioni diverse dalle nostre. Per ciò che mi riguarda, ad esempio, cimentandomi con la comunicazione, sia interna che esterna, ho imparato e sto ancora imparando! Tanto dal marketing nella gestione dei progetti, dal market access per l’interfaccia con associazioni di pazienti e istituzioni, l’eticità e il senso di responsabilità dall’ambito medico e la grandissima passione e flessibilità dai colleghi del commerciale.  Mi piace molto che la mia funzione oggi sia cambiata ed evoluta in “People & Communication”, dove al centro viene messa la persona nella sua unicità.  Mi è servito molto ascoltare e ricevere feedback di altri che possono aiutare a farti crescere: per questo il mio motto è mai fermarsi (avanti tutta) e mai smettere di imparare. C’è sempre qualcosa in cui crescere ed evolversi, possibilmente al meglio. Il network è fondamentale: dai contatti possono nascere tantissimi stimoli, spunti e riflessioni. Questo mi arricchisce enormemente sia come professionista che come persona».

Suggerimento che darebbe anche a chi decide di intraprendere questa strada?

«È bello circondarsi di persone che sono esattamente l’opposto di se stessi, perché possono aiutare a gestire delle progettualità in modo diverso avendo approcci diversi; l’essere complementari può servire molto ad avere nuove visioni e nuovi stimoli».

Qual è una dote chiave?

«Osservare le persone: vedere come agiscono, come ragionano, come si relazionano, una sana curiosità.  Sapere alzare lo sguardo e capire quali possono essere le interconnessioni tra vari punti del sistema, andare oltre il momento che le persone stanno vivendo. E anche non avere troppe manie di protagonismo: questa professione non deve fare emergere se stessi, ma gli altri. Quindi è importante non personalizzare troppo la funzione. A volte la tua soddisfazione sta nel celebrare un successo per cui hai lavorato come facilitatore, hai stimolato, hai attivato, hai aiutato a sviluppare… Non deve essere vissuto come una frustrazione, al contrario come un grande successo».

Un ruolo di supporto al business…

«Certo. La nostra è una figura il cui ruolo è quello di essere presenti nel business. Di capirlo. Di rafforzarsi come professionista anche formandosi continuamente o facendosi aiutare da altri che possono supportarci con le loro competenze integrando la nostra visione, ricordandoci sempre che il lavoro insieme può arricchire tutti, aldilà del singolo, come le tessere di un puzzle che si incastrano e creano insieme una bellissima immagine».

 

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