A tu per tu con le Top HR Women: Tamara Driol

I direttori del personale si raccontano a HR Link. La protagonista è Tamara Driol, HR Vice President per Italia di Astra Zeneca.

Tamara Driol

Capita sempre più spesso, nelle Hr, di trovare una donna ai massimi vertici della funzione. Sono le Top Hr Women. Alcune di queste professioniste hanno accettato di mettersi a confronto con noi, per raccontarci i passi salienti della propria carriera e darci una chiave di lettura di cosa significa oggi occuparsi di risorse umane, soprattutto dal punto di vista femminile. È la volta di Tamara Driol, HR Vice President per Italia di Astra Zeneca.

Come è iniziata la sua carriera? Nel momento del suo primo colloquio, aveva già ben chiara in mente la strada che l’ha portata dove è oggi?

«Sì, assolutamente. Io sono laureata in Economia aziendale in Bocconi e ho scelto di specializzarmi in Risorse umane e organizzazione, una decisione maturata già ai tempi dell’università: mi sembrava la specializzazione più consona a me, forse perché arrivavo dal liceo classico. Il mio sogno in realtà era di fare la consulente di organizzazione, ma il caso vuole che – mentre preparavo la tesi – concordai con il mio relatore di inserire un caso aziendale e quindi cercai un stage. Pensavo sarebbe rimasta un’esperienza unica, ma poi iniziai il tirocinio come HR assistant in una start up, e scoprii che mi piaceva. Peraltro l’azienda, che era nel mondo di Banca Intesa, mi chiese di rimanere. E così di fatto ho continuato a lavorare nelle risorse umane».

Quale porta avrebbe voluto aprire? Quale è pentita di aver aperto?

«Sinceramente non credo di aver aperto porte che avrei preferito lasciar chiuse, almeno non ancora, magari il futuro mi riserverà anche questo. La porta più importante che mi si è aperta è sicuramente quella dell’azienda nella quale lavoro attualmente, che però si è spalancata 19 anni fa. Quello è stato un po’ il punto di svolta, cercavo un ambiente internazionale dopo l’esperienza in un’azienda italiana, com’era all’epoca il gruppo Banca Intesa. L’altra strada che sono contenta di aver intrapreso è decisamente quella dell’esperienza all’estero, una porta difficile da aprire, con tutte le preoccupazioni del caso, ma che mi ha dato tanta soddisfazione».

Nonostante i passi compiuti in ottica di diversity, in Italia il numero di donne in posizioni apicali d’impresa è ancora basso. Il fatto di essere donna l’ha ostacolata nel suo percorso? Le cose stanno cambiando abbastanza velocemente rispetto a qualche anno, o la strada da compiere è ancora lunga?

«Personalmente non mi è stato mai fatto pesare l’essere donna nel mondo del lavoro. È uno stimolo che mi viene più dal mondo esterno che non dalla mia esperienza personale. Detto questo, mi ritengo privilegiata per una serie di fattori: il primo è che il mondo delle Risorse umane è evoluto in una direzione al femminile molto rapidamente. Quando ho iniziato a lavorare nel 2000, sono partita dall’ambito del compensation & benefit, quindi un mondo molto maschile, ero una delle pochissime ragazze a convegni tutti di uomini. Oggi se si partecipa a una iniziativa a tema risorse umane credo sia difficile trovare delle “quote azzurre”. Certo, nei primi due anni in cui ho lavorato nel mondo bancario era un po’ diverso, ma una volta passata al settore farmaceutico – che è molto al femminile indipendentemente dall’area – davvero non ho mai percepito difficoltà, pur rendendomi conto di essere privilegiata. Sicuramente la mia battaglia per far sì che tutte le donne abbiano quest’esperienza non finisce qui, ci sono delle situazioni di contesto delle quali sono consapevole».

Qual è la dote più importante di un HR manager? E il peggior nemico?

«Credo che il miglior alleato sia una passione onesta e trasparente nei confronti delle persone. Il peggior nemico l’operatività. Credo che la sfida sia sempre cercare di portare anche risultati su temi più qualitativi: sicuramente ci sono molte cose che dobbiamo fare e fare bene. A volte il rischio è che questo ci porti un po’ a dimenticare qual è il nostro ruolo in azienda, che invece è quello di sedere al tavolo delle decisioni e fare in modo che nessuno si dimentichi che tutte le scelte di business poi hanno un impatto sulle persone. Almeno io interpreto così il mio ruolo e la mia mission in azienda».

Conta più la formazione o l’esperienza sul campo?

«Sicuramente l’esperienza. Se pensiamo alla formazione, credo che al mondo delle risorse umane si arrivi da mille percorsi diversi. Ho colleghi che provengono da percorsi di studi diversissimi, da materie umanistiche, da studi in Giurisprudenza, da Economia, come nel mio caso. Si tratta di un ruolo molto sfaccettato, c’è chi entra dall’ambito legale, chi dal gestionale, ma poi comunque si devono costruire le competenze. Sicuramente in questo momento ci sono degli ottimi master – a differenza di quando ho iniziato io – che possono dare una rotondità e una consapevolezza dei diversi ambiti. Consapevolezza che però deve essere completata dall’esperienza. Credo che la classica rotazione su aree diverse resti un elemento fondamentale per costruire questo tipo di professionalità».

Qual è oggi la sfida professionale più grande per chi si occupa di HR, a suo parere?

«Credo sia la gestione dell’evoluzione, non solo del modo di lavorare – quello è sempre stato parte del nostro lavoro – ma delle persone. Dalla pandemia in avanti ci sono stati effetti indubbi su come le persone intendono la propria vita professionale e sulle aspettative in questo ambito. È cambiato profondamente il ruolo che le persone assegnano all’azienda e credo che questo sia solo l’inizio di un’onda lunga. Quindi bisognerà cercare di disegnare delle organizzazioni a misura di persona, magari in modo diverso da quanto fatto fino a oggi: l’esempio dello smart working è uno ma è solo l’inizio. Pensiamo al trend della great resignation: c’è tutto un tema valoriale-culturale che secondo me stiamo solo scalfendo in questo momento. La sfida è cercare di evolvere nella direzione in cui stanno evolvendo le persone. Perché tendenzialmente le organizzazioni sono un po’ elefantiache su questo tema: soprattutto nelle multinazionali, spesso non si ha quest’agilità nel riorganizzare».

Quale consiglio darebbe a un giovane che voglia intraprendere questa carriera?

«Innanzitutto “fatelo”! Credo sia un bellissimo lavoro, perché consente di essere parte di organismi complessi come le organizzazioni, ma al contempo di essere vicini alle persone. Come ci si prepara? Ci sono varie strade, dipende da cosa si vuol fare all’interno delle risorse umane. Io attualmente ricopro un ruolo generalista, sono HR director, quindi sono nella classica posizione dove si deve saper fare un po’ di tutto, ma ci sono molti ruoli che invece richiedono delle professionalità più specifiche e verticali, ciascuno sceglie la propria strada. La cosa che personalmente mi dà più soddisfazione è avere un impatto diretto su tante persone. Ogni volta che aiutiamo l’organizzazione a evolvere, a dare benessere a tutti coloro che ci lavorano, a risolvere situazioni personali magari delicate e trovare un modo per gestirle, ecco, questo per me è una grandissima gratificazione. Non è così dappertutto, purtroppo, ci sono realtà diverse e mi rendo conto di quanto questo possa fare la differenza.

Un altro consiglio che sento di dare è quello di compiere un’esperienza all’estero. Quando faccio percorsi di mentoring o parlo con ragazzi che seguono master in HR, la domanda più frequente è quanto sia importante conoscere la realtà italiana rispetto alle esperienze internazionali. Nel mio profilo c’è anche un pezzo abbastanza lungo di esperienza all’estero. Certo non è indispensabile, ma sicuramente aiuta, soprattutto se si ha l’intenzione di lavorare in realtà multinazionali. Credo che serva anche come esperienza di vita, per essere sempre più flessibili. Una delle caratteristiche che cerchiamo di promuovere è proprio l’agilità, e avere esperienze al di fuori del tuo contesto ti obbliga ad essere agile».

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