A tu per tu con le Top HR Women: Marilena Ferri

I direttori del personale si raccontano a HR Link. La protagonista è Marilena Ferri, People & Culture and Legal Director di ManpowerGroup Italia.

Marilena ferri

Capita sempre più spesso, nelle HR, di trovare una donna ai massimi vertici della funzione. Sono le Top HR Women. Alcune di queste professioniste hanno accettato di mettersi a confronto con noi, per raccontarci i passi salienti della propria carriera e darci una chiave di lettura di cosa significa oggi occuparsi di risorse umane, soprattutto dal punto di vista femminile. È il turno di Marilena Ferri, People & Culture and Legal Director di ManpowerGroup Italia. Laureata in Storia Sociale e Politica, con una specializzazione in Labor Law & HR Management, Ferri vanta una carriera di oltre 20 anni nel campo delle risorse umane in aziende nazionali e internazionali operanti in diversi settori industriali e società di consulenza.

Dott.ssa Ferri, come è iniziata la sua carriera? Che studi ha fatto?

«All’università ho studiato Storia Economica Medievale ma, invece di intraprendere una carriera accademica come avevo immaginato, ho capito che mi affascinavano la dimensione relativa alle persone e la gestione delle risorse umane nelle organizzazioni. Invece di fare il concorso per il dottorato mi sono candidata per una borsa di studio per un master HR, l’ho vinta e ho iniziato il percorso che mi ha portato fin qui.

Le scelte universitarie si fanno quando si è molto giovani, senza sapere realmente come funziona il mondo del lavoro e come potrebbe evolversi nel tempo. Credo che per chiunque sia importante, soprattutto all’inizio del proprio percorso di carriera, mettersi in discussione e chiedersi cosa si desidera veramente e quali siano le nostre reali attitudini».

Quale porta avrebbe voluto aprire?

«Facendo un discorso ampio, le porte più complicate da aprire per un HR credo siano i ruoli apicali con un impatto diretto sul business. Sebbene non manchino le competenze, sono tuttora ambiti inaccessibili per chi proviene dalle risorse umane. Oggi molti Direttori HR avrebbero tutte le carte in regola per ricoprire ruoli di vertice, ma bisognerebbe analizzare per quale motivo questo non avvenga ancora frequentemente. Per altre funzioni questi ruoli sono diventati accessibili, ad esempio per il Finance, e con la giusta chiave questo potrà accadere anche per le Human Resources. Personalmente non ho rimpianti, perché credo che si possano trarre insegnamenti positivi anche dalle esperienze più complesse».

Nonostante i passi compiuti in ottica di diversity, in Italia il numero di donne in posizioni apicali d’impresa è ancora basso. Il fatto di essere donna l’ha ostacolata nel suo percorso? Le cose stanno cambiando abbastanza velocemente, o la strada da compiere è ancora lunga?

«Le cose stanno cambiando, ma molto lentamente. Temo peraltro che la pandemia non abbia per nulla aiutato l’occupazione femminile. Ho letto di recente un’interessante ricerca che mette in relazione il numero di giorni in cui le scuole sono rimaste chiuse con il numero di donne che effettivamente lavorano: i Paesi in cui l’occupazione femminile è più bassa sono quelli in cui le scuole sono state chiuse per più tempo. Questo significa che, ad oggi, c’è ancora un’aspettativa molto alta nei confronti delle donne rispetto alla presa in carico delle responsabilità familiari. E questo vale anche per l’Italia.

Personalmente ho la fortuna di lavorare in ManpowerGroup, un’azienda molto “femminile” (il 76% delle persone che ci lavorano è donna), che è riuscita ad andare oltre alcune dinamiche che invece impattano pesantemente su altre realtà e altri settori. In generale, però, siamo ancora immersi in una cultura che incasella le donne in stereotipi. A volte una donna di successo, ad esempio un’atleta, inizia ad essere definita con toni più “umani” solo nel momento in cui diviene madre, come se prima non lo fosse realmente, come è capitato a Serena Williams. Nessuno direbbe di un uomo che è meno umano perché non è padre, o perché non è sposato, o non ha una compagna. Samantha Cristoforetti dopo il parto è diventata “astro mamma”, mentre nessuno ha mai chiamato Luca Parmitano “astro papà”.

Ci sono ancora tanti passi da fare, consci e inconsci: c’è una parte conscia di azioni e politiche attive che dobbiamo portare avanti in maniera importante all’interno delle organizzazioni, ma c’è anche una parte inconscia che gioca moltissimo a sfavore delle donne».

Qual è la dote più importante di un HR manager?

«Non c’è una risposta univoca. Credo che l’HR, come precondizione, debba incarnare molto bene alcuni valori etici, un’apertura mentale verso tutto ciò che è diverso, perché il nostro è proprio un ruolo di intermediazione tra l’organizzazione e il singolo, a vari livelli. Inoltre, avere una forte dirittura morale e trasparenza di pensiero ripaga molto nel medio-lungo termine, perché garantisce una credibilità che altrimenti si farebbe fatica ad ottenere».

Conta più la formazione o l’esperienza sul campo?

«Sono entrambe allo stesso livello. La formazione deve esserci sempre, anzi uno degli errori peggiori è credere che una volta finito il percorso di studi si possa smettere di studiare. Al contrario, occorre studiare e prepararsi sempre, perché possedere strumenti teorici è ciò che permette di essere efficaci nella pratica. Un mio vecchio capo diceva “Non esiste una buona pratica senza una buona teoria”».

Qual è oggi la sfida professionale più grande per chi si occupa di HR, a suo parere?

«Sicuramente la pandemia è la sfida più grande. Con la rivoluzione del mercato del lavoro e la diffusione di modi diversi di vivere e lavorare, riuscire a mantenere il senso di appartenenza diventa sempre più complesso. Anche gestire il tema del wellbeing è una sfida enorme. Non parlo di offrire corsi di yoga – anche se certamente si può fare – ma di aiutare le persone con cui si lavora a “viversi” integralmente. Non amo molto il concetto di work-life balance, perché rimanda all’idea di un’altalena tra due poli, ma preferisco parlare di work-life integration. La persona che lavora e quella che torna a casa non sono due entità distinte. L’anno scorso abbiamo lanciato un questionario tra i nostri dipendenti, chiamato Multi-me, proprio per aiutare le persone a capire cosa possono portare della propria vita personale nel lavoro, e i risultati sono stati interessanti. Moltissime persone, ad esempio, hanno detto di essere ironiche solo fuori dal lavoro. L’ironia in realtà serve tantissimo, chi ce l’ha fuori dall’ufficio deve portarla anche dentro».

Quale consiglio darebbe a un giovane che vuole intraprendere questa carriera?

«Consiglierei di divertirsi, perché quella dell’HR è una carriera impegnativa. Se ci si diverte, trovando la motivazione nel sentirsi utili, allora diventa tutto più piacevole. L’importante è non intraprendere questo percorso solo perché lo si è deciso a 18 anni. Ne vale la pena se ti dà energia. Se te la toglie, meglio cambiare subito».

 

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