«Bene il salario minimo, ma definendo regole uguali per tutti e ragionando sulle mansioni»

Fabio Nebbia, Hr di Coopservice: «Non può esistere trattamento diverso per ruoli affini»

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«L’istituzione del salario minimo obbligherebbe le parti a rileggersi, a rivedere i propri ruoli; ma fondamentale è ragionare su tre aspetti: gradualità, mansioni e definizione di regole che siano uguali per tutte le aziende». Questo il punto di vista di Fabio Nebbia, Hr di Coopservice, che riflette sul dibattito in corso a proposito dell’instaurazione del salario minimo, a partire dall’esperienza vissuta dalla sua azienda, dove di recente è stato rinnovato il contratto collettivo multiservizi che ha riguardato circa 13 mila dipendenti su 18 mila.

Cosa è successo in Coopservice?

«Il rinnovo era fermo per la parte economica da otto anni, perché il tavolo che riguardava aziende come la nostra è così variegato – dal punto di vista delle dimensioni, visto che è composto da imprese molto grandi e anche molto piccole – da non interessare allo stesso modo tutti. Ma dal confronto emerso tra quelle di dimensioni più grandi era evidente che il contratto avrebbe dovuto essere rinnovato. E così è stato. È evidente che il nostro è un settore in cui il confronto sul costo del lavoro si fa anche sui numeri decimali, quando si tratta di gare d’appalto, ma è chiaro anche che la soglia minima potrebbe aiutare a “ripulire” situazioni in cui talvolta vengono offerte ai lavoratori alternative al contratto multiservizi che, a parità di mansioni, prospettano condizioni economicamente molto meno dignitose».

Quindi il salario minimo può essere utile?

«In quest’ottica certamente permette da un lato di garantire una concorrenza più leale, rafforzando anche gli interventi degli organi ispettivi, e dall’altro di recuperare la dignità del lavoratore dal punto di vista economico. Ma è fondamentale ragionare anche sul concetto di mansione».

In che senso?

«Bisogna ragionare sul piano dell’identificazione della mansione: non dovrebbe accadere più che si utilizzino contratti diversi per la stessa mansione, sebbene nell’ambito dei servizi non sia sempre facile identificare ruoli specifici. Ma non è possibile avere trattamenti diversi a parità di mansione» soprattutto su quelle mansioni poco professionalizzanti.

Può fare degli esempi?

«Nella logistica è possibile applicare anche tre o quattro contratti con gradiente di salario che è al di sotto della cifra pensata per il salario minimo. Ma se si alza l’asticella della retribuzione per legge si va in qualche modo a diminuire lo spazio della contrattazione sindacale. Se si ragionasse, poi, in termini di mansioni, accorpandone alcune, si interverrebbe anche sugli oltre 800 contratti collettivi che attualmente sono in essere, di cui una buona parte non sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. E anche in questo caso si agirebbe sul ruolo e sulle funzioni dei sindacati. C’è poi un altro aspetto: se osserviamo cosa si è fatto in Germania, dove l’asticella della retribuzione è stata alzata per i lavoratori più poveri, l’impatto non è stato poi così forte sui datori di lavoro. Di certo, però, si è data maggiore dignità ai lavoratori poco retribuiti. E, d’altro canto, per contenere i costi, è stato introdotto il merito».

Il ruolo dei sindacati in Germania è diverso…

«È sempre difficile fare dei paragoni. I sindacati tedeschi sono in qualche modo più “partner” delle aziende, dato che, ad esempio, le strategie e le prospettive vengono decise in modo congiunto».

In Italia cosa accadrebbe, a suo avviso?

«Se introducessimo i nove euro l’impatto sarebbe su una porzione minima di lavoratori, quelli che – come si diceva pocanzi – lavorano in ruoli nei confronti dei quali l’interpretazione contrattuale si basa su uno o più contratti che prevedono differenze notevoli tra loro».

In sostanza, voi siete tutto sommato favorevoli al salario minimo?

«Sì, noi saremmo favorevoli, ma si dovrebbe capire come graduarlo, ragionando in termini di mansioni, perché altrimenti si alzerebbe l’asticella per certe categorie di lavorative, senza intervenire su applicazioni “creative” del contratto».

Forse qualche Ccnl sparirebbe? Non sarebbe più semplice lavorare su una corretta applicazione dei contratti già in essere?

«Mi spiego meglio. Lavorando nel mondo degli appalti si entra spesso in contatto con realtà che applicano trattamenti economici diversi dal nostro. È un terreno di non equità per i lavoratori dal punto di vista della dignità. Esistono contratti di confluenza che vengono utilizzati proprio per allineare situazioni diverse. L’ideale sarebbe unificare per mansione e poi ragionare in termini di secondi livello su aspetti specifici, con il sindacato.

Non accade?

«Non è così banale, perché i termini in gioco sono vari e non sempre legati al solo discorso economico. Qualcosa si può già fare in fase di rinnovo, ad esempio, introducendo una gradualità di avvicinamento tra due contratti. Queste sono situazioni in cui si trovano tutte le aziende come la nostra che lavorano nei dintorni del salario minimo, specialmente dove le mansioni non sono definite così chiaramente come in questo tipo di contrattazione. Il mulettista, il magazziniere, sono figure interpretate contrattualmente in modo “creativo”».

Il salario minimo, quindi, aiuterebbe?

«Il fatto che la legge imponga una linea uguale per tutti evita di trovarsi in situazioni di diverse applicazioni dei contratti e quindi di diverso trattamento per i lavoratori. Ciò che accade adesso non fa bene ai lavoratori e neanche alle aziende serie».

La legge eviterebbe di mettere le aziende più attente nella condizione di “costare” di più nei confronti del cliente…

«Esattamente. Perché non è detto che il cliente – parlando di appalti – capisca perché i costi di un’azienda sono più altri di quelli di altre».

Con l’introduzione del salario minimo aumenterebbero, invece, i costi per l’azienda?

«In una fase iniziale sì, ma se l’applicazione è oggettiva e non settoriale, poi si partirebbe tutti da una stessa base, rinnovata. Ma un altro aspetto potrebbe far lievitare i costi».

Quale?

«Prendiamo un contratto collettivo al di sotto dei nove euro al primo livello: se volessimo mantenere tutti i sette livelli si dovrebbero alzare tutti i successivi o intervenire per limarli o accorparne alcuni, come si diceva. Il terreno è molto scivoloso: bisognerebbe mettere mano alla complessità della contrattazione; alcuni tavoli sarebbero ridotti o sparirebbero o, diversamente, potrebbero essere dirottati verso altri ambiti legati al welfare, alla previdenza, ad esempio, in modo da guardare un po’ avanti e non solo all’oggi. Una cosa è certa: l’Italia è rimasta l’unico paese a non avere ancora il salario minimo per legge, insieme a Svizzera, Austria e Finlandia e Svezia. Per aziende come la nostra è un argomento molto interessante e stimolante perché operiamo nei dintorni dei nove euro; ribadisco: si chiarirebbe e si semplificherebbe».

Osserva scarsa disponibilità nei sindacati a rinnovare il proprio ruolo?

«Mi pare che non ci sia ancora una posizione netta, più che altro. E credo che le organizzazioni sindacali – lavorando ancora molto per comparti – fatichino a fare un ragionamento di ripensamento. Ma sarebbe anche interessante capire qual è la posizione precisa di Confindustria».

Andrà a finire in niente, la proposta, a suo avviso?

«Dal mio punto di vista, in questo caso strettamente personale, è evidente che la forbice tra chi sta molto bene e chi sta molto male aumenti sempre di più ed è necessario tenerne conto. In un contesto simile il salario minimo avrebbe una ragion d’essere».

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