TAVOLA ROTONDA

Benessere psicologico, una priorità per le aziende di oggi e domani

Fino a pochi anni fa, l’Health, Safety & Environment manager aveva prevalentemente il compito di occuparsi della gestione della salute e della sicurezza in azienda, assicurando in particolare l’implementazione dei requisiti di legge. Ma il ruolo sta rapidamente evolvendo perché il cambiamento è ormai una necessità vera e urgente: il benessere mentale e psicofisico impatta sulla qualità del lavoro, sul business e sulla società intera, abbattendo anche i costi sanitari e restituendo felicità alle persone. Ne abbiamo parlato con Raffaella Maderna, People & Communication Director di Lundbeck Italia, Luca Solari, Professore ordinario dell’Università degli studi di Milano, e Marco Spadafora, responsabile client sales & success Italia di Gympass.

Raffaella Maderna

People & Communication Director di Lundbeck Italia

Prima del covid all’interno Lundbeck non si registravano grosse criticità sul fronte sicurezza: l’azienda non ha siti di produzione ma consta prevalentemente informatori scientifici distribuiti sul territorio. Poi, con la pandemia i temi di salute e sicurezza sono diventati prioritari sia da un punto di vista strettamente fisico che di benessere psicologico.

A raccontare questa evoluzione è Raffaella Maderna, People & Communication Director di Lundbeck Italia.

Dottoressa Maderna, come avete affrontato questi mesi sul fronte benessere e sicurezza?

«Non appena compresa la situazione siamo intervenuti attivando un’assicurazione sanitaria integrativa e rafforzando anche quella parte di benefit pensati specificatamente per chi lavora molto tempo in macchina: corsi di guida sicura, ad esempio. Poi ci siamo gradualmente spostati sul versante più psicologico legato al benessere garantendo servizi per la persona e per la famiglia. Abbiamo lanciato una piattaforma il cui obiettivo era quello di comunicare quanto sia importante stare bene con la psiche e con le proprie emozioni. Quando gli informatori si sono dovuti fermare e  lavorare da casa, abbiamo organizzato corsi di postura, di mindfulness, sulla nutrizione e anche laboratori coi bambini perché sapevamo che anche il tema dei figli in gestione a casa era sentito. Tiepidamente si è passati a lavorare anche sulla gestione delle emozioni, particolarmente sentito da persone abituate ad essere sempre in movimento e soprattutto gestire relazione sempre dal “vivo”. Abbiamo ragionato anche sulla necessità di occuparci della gestione delle paure legate al Covid e anche e al ritorno in ufficio e al lavoro sul territorio.  Abbiamo riaperto gli uffici da maggio 2020 e per gli informatori, recarsi negli ospedali, era una forte preoccupazione. Evidentemente, però, essendo un’azienda che opera sulla salute mentale non si poteva trascurare questo aspetto ed era importante che gli informatori continuassero a dare informazioni alla classe medica.

Questo è stato il ragionamento alla base dell’organizzazione di diversi focus group con un supporto di psicologi esterni per comprendere al meglio le esigenze e facilitare il rientro.

Parlare di salute mentale con la classe medica, ma anche con i vostri collaboratori…

«Certamente. Abbiamo attivato dei webinar sulla salute mentale e sulla gestione dello stress, ma anche sull’abuso dei social e l’iperconnessione, affinché le nostre persone acquisissero maggiore consapevolezza. È un filone su cui stiamo continuando a lavorare».

È stato difficile farlo?

«C’era un po’ di timore ad affrontare questi temi tutti in una volta, quindi abbiamo lasciato i webinar a fruizione volontaria. Poi le adesioni sono aumentate in fretta. Le nostre persone conoscono tutte le patologie legate all’ansia, allo stress e alla depressione, ma sono formate per portare le informazioni alla classe medica, forse meno preparate per la sfera più personale, guardarsi dentro».

L’occasione della pandemia ha forse anche permesso di rendere le persone anche più empatiche…

«E così.  Abbiamo lanciato un’indagine per testare il gradimento delle persone rispetto alle iniziative intraprese dall’azienda e abbiamo avuto conferme positive. Siamo un’azienda che

viene riconosciuta come attenta alle esigenze delle persone; quest’anno lavoriamo tanto sulla comunicazione e sensibilizzazione sulla salute mentale perché sappiamo benissimo che attorno a questo tema aleggia sempre un grandissimo stigma e molti pregiudizi. Occorre avere molta cautela: per questo attiviamo anche percorsi psicologici e di coaching affinché le persone si sentano libere di parlare. Oltre tutto sappiamo bene che il benessere delle persone influisce sulle performance aziendali. Insomma, per noi si tratta di un’attività di social responsability di cui il wellbeing in azienda è un aspetto cruciale. Abbiamo anche lanciato un contest “Lundbeck Awards: la salute parte dal cervello” dove premieremo tutte le aziende che vogliono condividere le best practices su come stanno lavorando con i loro collaboratori sul benessere fisico e psicologico. Ogni azienda può imparare l’una dall’altra”.

Oltre tutto sappiamo quanti strascichi la pandemia ha lasciato negli adolescenti sul fronte della salute mentale. Non solo durante la chiusura, ma anche nel rientro…

“Vi un grande bisogno di informare, sensibilizzare e creare consapevolezza sulle malattie mentali in età adolescenziale, un fenomeno già in crescita che, dopo la pandemia, ha assunto un profilo preoccupante: i sintomi di depressione e ansia, registrati nel corso dei due anni di lock down, sono raddoppiati rispetto alle stime pre-pandemiche: 1 giovane su 4 (il 25,2%) e 1 su 5 (il 20,5%), a livello globale, sta sperimentando sintomi di depressione e ansia clinicamente elevati.

È fondamentale parlare e far parlare di malattie mentali nei giovani, senza paura e pregiudizi, e scardinare lo stigma che esiste nei loro confronti…

I clinici con cui abbiamo lavoriamo e che gestiscono reparti in ospedale ci dicono che si tratta veramente di un allarme. Per questo motivo abbiamo deciso di produrre un cortometraggio, forte e intenso dal titolo Mi vedete?, sarà proiettato in anteprima il prossimo 23 luglio, in occasione del Festival di Giffoni. Vogliamo accendere i riflettori sull’importante tema delle malattie mentali, in particolare della depressione nei ragazzi: è fondamentale riconoscere, affrontare e parlare di depressione senza timori e pregiudizi, perché come per altre malattie, anche dalla depressione si può guarire. Vogliamo procedere con altri progettualità specifiche sugli adolescenti, parlandone con istituzioni, ad esempio portandolo nelle scuole e classe medica, affinché si possa parlare di queste tematiche e fare cultura”.

In questo contesto il ruolo dell’HR sta evolvendo?

«Sono tante le aziende che stanno lavorando al passaggio dai temi del welfare a quelli legati wellbeing e all’inclusione. Le persone sono sempre più interessate a tematiche che aiutano ad aprirsi, a comprendere il mondo. Per le nuovissime generazioni sono temi prioritari, insieme a quelli legati alla sostenibilità ambientale e sociale».

Luca Solari

Professore di Organizzazione aziendale all’Università degli studi di Milano.

«Parlare di salute delle persone vuol dire innanzitutto parlare del rapporto tra persone ed organizzazione; una relazione centrale, sia dal punto di vista pratico – dato che le persone entrano nelle organizzazioni per svolgere delle attività – sia dal punto di vista teorico, dato che questa relazione è cruciale per la gestione delle risorse umane». Luca Solari, professore di Organizzazione aziendale all’Università degli studi di Milano, ragiona su questi punti aggiungendo che «questo rapporto tipicamente storicamente si struttura tra le competenze di cui la persona è in possesso e la dimensione motivazionale, che è l’elemento ingaggiante».

Professore, cosa manca a questa relazione?

«Sono assenti l’aspetto fisico, corporeo e l’aspetto psicologico, slegato dall’ambito motivazionale, ovvero manca tutto ciò che ha a che fare con il benessere soggettivo. Occorre segnalare che l’aspetto fisico, in realtà, non è sempre assente dato che, per ciò che riguarda mansioni dove è richiesto un carico muscolare e scheletrico di un certo tipo, la corporeità diventa un termine su cui ragionare in termini economici. È meno rilevante nel caso di mansioni legate all’utilizzo dei videoterminali. In generale, però, il tema del corpo e del benessere fisico è stato a lungo assente, almeno fino a quando non abbiamo iniziato a vedere apparire all’interno del welfare delle organizzazioni il concetto di well-being degli spazi legati; ancora più assente il tema della salute mentale».

Per quali ragioni?

«Nel nostro Paese, diversamente da altri, il tema della salute mentale è collegato a numerosi tabù presenti nella società stessa. Ancora di più nelle organizzazioni, per almeno due ragioni: la prima ha anche un fondamento e sta nel fatto che ci si chiede quale sia il confine e oltre al quale l’organizzazione non debba andare affinché l’interessamento non diventi un’intrusione. Si tratta senz’altro di un tema molto delicato, anche perché non riguarda degli elementi visibili e, in un Paese come l’Italia, dove già abbiamo difficoltà a rapportarci alla malattia fisica che ha conseguenze immediatamente osservabili, ancora più difficile è farlo nel caso di una malattia che provoca una sofferenza mentale. Ricerche fatte in quest’ambito in Italia evidenziano la presenza di patologie nell’ambito del contesto della relazione lavorativa. Insomma, il problema esiste ma sostanzialmente la sofferenza mentale legata al contesto lavorativo non viene considerata alla pari di altri tipi malessere».

All’interno di questo quadro si è poi inserita la pandemia. Quanto ha complicato?

«Ovviamente una situazione particolare estrema non poteva non avere un risvolto sull’equilibrio mentale delle persone, ancora presente. Ma, se consideriamo che le problematiche di salute mentale sono spesso al di sotto della soglia della consapevolezza individuale, è evidente che l’impatto è stato ancora più significativo».

E l’intersezione tra il mondo lavorativo e quello personale, cosa ha comportato?

«È stato un po’ come l’incontro tra universi paralleli, che non è sempre positivo. Si è cercato di raggiungere un nuovo equilibrio, faticosamente. E ancora oggi il carico mentale aggiuntivo per i lavoratori impegnati in forme di lavoro ibrido è elevato, perché i processi organizzativi non sono effettivamente cambiati in maniera significativa e quindi la sensazione che molte persone hanno è quella di lavorare in due posti differenti, con tutto quello che questa condizione comporta: settarsi ogni volta, gestire l’ansia causata anche dal dover tenere assieme non solo la vita personale con quella lavorativa, ma proprio due vite lavorative distanti, basate su strumenti diversi e logiche diverse, talvolta prive di connessioni».

I dati talvolta dicono che le persone preferiscono la forma ibrida, soprattutto sopra i 50 anni, ma non è sempre così, e si è forse soggetti ad un’illusione di benessere lavorativo. Qual è il suo punto di vista?

«Le ricerche disponibili non sono complete quindi facciamo fatica a identificare e a profilare: in certi casi sembrano più propensi al lavoro ibrido i 50enni, in altri i 30enni. Ci sono molte variabili che dipendono anche dalle scelte che le persone. Ad esempio, se si sono trasferite, vedono con difficoltà il rientro. Credo che si debba smettere di utilizzare categorizzazioni generali perché ciò che sta accadendo ha una dimensione molto individuale. Se parliamo di un under 26 che nel lockdown è tornato dalla famiglia al sud, la sua condizione sarà molto diversa da quella di un altro 26enne che convive con altre persone a Roma o a Milano. Le tipizzazioni sono uno dei grandi mali delle direzioni di risorse umane: se in passato potevano “tenere”, oggi non funzionano più. Quindi  è necessario effettivamente raccogliere informazioni, capire le situazioni e le condizioni, le preferenze individuali e poi semmai ragionare su delle logiche che aiutino le persone a relazionare le proprie preferenze con l’organizzazione e ciò che è disposta a costruire».

Non sarà, insomma, più pensabile una strada adatta a tutti e a tutte..

«No. Recentemente sono stato negli Stati Uniti per un progetto preliminare di analisi su questi temi. Emergono le stesse cose: non si può generalizzare ed è molto forte la richiesta di fiducia da parte delle persone e del loro punto di vista rispetto a ciò che è accaduto».

Quanto sono disponibili le aziende, i dipartimenti delle risorse umane a comprendere il cambiamento?

«Le aziende dicono di farlo anche se poi in certi contesti organizzativi ancora è forte l’idea del controllo. Certi management non lo confesseranno mai, ma faticano, e devono imparare a ridurre il loro livello di ansia che scaturisce dalla diminuzione del controllo o addirittura alla rinuncia totale. Se il manager è abituato a fare così, non è bravo ad organizzarsi, non pianifica, usa la risorsa umana con discrezionalità e scarica le sue inefficienze sulle persone, oppure se semplicemente non ascolta, ovviamente il cambiamento è faticoso. Ci sono aziende che non hanno neanche i database aggiornati con i titoli di studio delle persone, non sono dotate di sistemi di qualità per raccogliere informazioni; a ciò si aggiunge il tema della privacy che spesso ostacola: bisogna mettersi nell’ordine di idee di cambiare, di fare degli investimenti e affrontare in maniera chiara il fatto che ogni capo, ogni supervisore deve assumersi delle responsabilità di organizzazione di governo di pianificazione. Ma in molte organizzazioni la qualità dei capi dal punto di vista gestionale, è molto bassa, perché per anni non sono stati selezionati, al di là di quello che si raccontava».

Cosa accadrà?

«Io credo che le organizzazioni meno aperte forzeranno processi di rientro delle persone: ad alcune andrà bene, ad altre no. Tra quelle che non apprezzeranno, ci sarà chi rimarrà e chi invece resterà. Ma non è una buona cosa. È molto meglio se una persona che non si trova bene in un contesto lavorativo lo lascia. Sappiamo dalla letteratura sul contratto psicologico che le persone riadattano i livelli del loro effort a quello di ciò che percepiscono.  Se una persona percepisce di essere trattato meno bene di quanto potrebbe, è probabile che abbassi il suo livello di adesione, di coinvolgimento».

E questo ha anche un costo…

«Certo.  Una ricerca ha stimato che se dovessimo trasformare in un valore economico il differenziale retributivo per forzare le persone a tornare a un lavoro fisico, il costo sarebbe tra il 10 e il 15%. Ciò significa che se forziamo le persone ci dobbiamo aspettare una riduzione tra 10 e il 15% della loro produttività individuale, in una logica molto economicistica».

Tornando a ciò che diceva all’inizio, poi, l’Italia è un Paese in cui ancora la considerazione del benessere psicologico è bassa..

«Ho partecipato recentemente in Uk alla Settimana per la salute mentale organizzata dal ministro della Sanità, a cui erano presenti anche molti responsabili delle risorse umane. In Uk salute fisica, salute mentale e welfare sono racchiuse in un’unica figura, quindi, ad esempio, il responsabile di una delle più grandi aziende inglesi raccontava di come per loro il benessere psicologico sia una priorità perché ha un impatto molto importante sia su sistemi sanitari che sulla produttività aziendale e poi anche sulla qualità della vita dei familiari e delle persone che sono vicine a chi soffre a causa del contesto lavorativo. Questa figura onnicomprensiva in Italia non esiste. Quindi è più difficile occuparsi in modo adeguato di benessere psicofisico. L’HR in Italia non ha una visione complessiva, unitaria».

Dovrà evolversi: può diventare una figura cruciale per il cambiamento?

«Dovrà approfondire la conoscenza della persona in rapporto col sistema organizzativo e poi dovrà incrementare la capacità di trovare logiche di differenziazione e di articolazione della risposta rispetto alle esigenze interne, superando categorizzazione molto vecchie. Potrebbe essere cruciale se smettesse di continuare a raccontare la “favoletta” dell’essere al servizio del business, perché tutte le funzioni aziendali sono al servizio del business, sennò – banalmente – non verrebbero pagate. Vale anche per marketing e finanza.  L’HR dovrebbe cercare di capire quali sono gli elementi sui quali agire per gestire non solo il costo del personale – che spesso è l’unica cosa che sembra essere a cuore di molte delle direzioni risorse umane – ma l’insieme delle componenti del lavoro umano inserite all’interno del contesto organizzativo. Per farlo deve imparare cose nuove: se ci si basa solo sul sistema di valutazione della prestazione e non ci si accorge che la persona lavora in un contesto dove è abusata psicologicamente, si osserverà che la performance non c’è».

Marco Spadafora

Responsabile client sales & success Italia di Gympass.

Palestre, campi da calcetto, da padel e piscine, ma anche applicazioni legate al benessere. Sono alcune tra le novecento attività che Gympass – da anni presente in dieci Paesi al mondo, con 2.500 clienti – propone per favorire il benessere fisico e mentale. La direzione era già segnata prima della pandemia, che poi ha spinto ancora di più l’azienda ad operare in questo senso. A raccontare questo e molto altro Marco Spadafora, responsabile client sales & success Italia di Gympass.

Dottor Spadafora, come è cambiata l’attenzione al benessere?

«Prima della pandemia l’attenzione da parte dei leader al benessere era soprattutto legata a formazione (upskilling e reskilling) e all’ingaggio. Poi, a causa della pandemia, l’attenzione si è spostata sul benessere fisico e mentale: è diventato un tema culturale. La vera rivoluzione scatenata dal covid è legata a spazi e tempi, tanto che non si parla più di work-life balance ma di work-life blend. In questa continua sovrapposizione di tempi e spazi, una piattaforma incentrata sul benessere viene vissuta come un motivo per il ritorno alla socialità, alla condivisione di spazi».

Il benessere mentale, la salute mentale, sono stati sempre argomenti tabù in Italia…

«Ho recentemente partecipato ad un incontro organizzato dalla Camera dei Lords in Inghilterra, davvero illuminante, dedicato al benessere mentale e alla solitudine sul posto di lavoro.

Il focus era chiaro: il benessere mentale è un tema sociale di cui la politica e le Istituzioni devono occuparsi, se non fosse anche solo per l’impatto che la sua mancanza ha sui costi sanitari e sulla produttività delle stesse aziende. Inoltre, il mondo anglosassone in generale ha prodotto nelle aziende ruoli specificatamente dedicati al benessere mentale. È diventato una priorità sui tavoli delle leadership: dipendenti sani e attivi fisicamente, che si prendono cura del proprio benessere, hanno un impatto positivo sulla produttività aziendale. Si tratta di benefici diretti. Per contro, si è parlato anche di presenzialismo inefficiente, ovvero dell’andare a lavorare in condizioni di scarso benessere, magari perché si è stati svegli tutta la notte… Ecco, noi abbiamo prodotti che supportano ogni aspetto del benessere fisico, mentale, qualità del sonno, nutrizionale, creazione di abitudini salutari fino ad arrivare al benessere finanziario».

Anche a livello formativo?

«Sì, anche a livello di education su queste tematiche. Supportiamo le aziende per costruire quotidianamente una cultura del benessere».

Quali risultati state osservando? Le aziende sono pronte?

«Anche prima della pandemia avevamo tante aziende clienti già pronte, in questo senso. Oggi il bisogno è crescente. E c’è da dire che il benessere diventa un tema che può essere declinato sotto vari aspetti: ci sono aziende che lo utilizzano per affrontare temi di talent attraction e talent retention. Abbiamo fatto uno studio a livello europeo su più di cento aziende e abbiamo visto che l’impatto sul turn over è di oltre il 50% sui dipendenti che usano Gympass. Ci sono aziende che usano il benessere sul piano dell’employer branding, per raccontare nel miglior modo possibile il proprio approccio alla sostenibilità e a una cultura aziendale incentrata sullo stare bene».

Quindi il cambiamento di mentalità sta arrivando?

«Sì, e le aziende chiedono supporto. Anche ad esempio per ingaggiare la popolazione dei millennials».

È un’opportunità per gli HR?

«Certamente. Si tratta di un passaggio epocale in cui gli HR potranno essere strategici per portare il tema sul tavolo della leadership».

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