Burnout e vacanze, chi non stacca nemmeno in ferie

Nel 2018 una survey di American Time Use fissava al 30% il numero di dipendenti full time che lavoravano anche nei weekend e durante le ferie. Questo prima della pandemia e prima che i confini tra lavoro e vita privata diventassero ancora più labili a causa del lavoro da remoto e della pervasività di alcune tecnologie digitali. Come si inserisce il diritto alla disconnessione in questo contesto, specialmente ora che tutto (o quasi) è cambiato?

Burnout

Con il nuovo assetto preso negli ultimi anni dal work-life balance, che ha assottigliato il confine tra vita lavorativa e privata fino quasi a farlo scomparire, il diritto alla disconnessione è diventato un tema caldo, per il quale è fondamentale trovare una definizione e, soprattutto, una forma di tutela per i lavoratori, i quali si sentono spesso quasi obbligati a rispondere a una mail di lavoro o a un messaggio del capo anche fuori dai canonici orari lavorativi, invadendo dunque la sfera di tempo dedicata alla vita privata.

Infatti, in nome di quelle maggiori libertà e flessibilità che i nuovi strumenti tecnologici consentono, si rischia di vivere perennemente connessi – fisicamente e mentalmente – con il proprio ambito di lavoro, senza mai staccare davvero – e del tutto – la spina e rischiando quindi il temuto burnout e la conseguente demotivazione cronica.

I dati del burnout

Secondo quanto riportato dal magazine britannico HR Review, il 47% degli intervistati non riesce a disconnettersi totalmente neppure in vacanza, mentre il 28% ha optato per una workation, mescolando dunque coscientemente vacanza e lavoro; il 22% del campione, invece, ha dichiarato di essere stato contattato dalla propria azienda mentre era in vacanza. In Francia, un sondaggio analogo, svolto dalla società di consulenza Empreinte Humaine, ha mostrato come circa un terzo dei lavoratori salariati abbia sviluppato sintomi da burnout: un dato tre volte superiore rispetto a prima della pandemia.

Il diritto alla disconnessione: a che punto siamo   

Se in Francia è in vigore una legge – già dal 2017 – che obbliga le aziende con oltre 50 dipendenti a negoziare politiche specifiche riguardo alla reperibilità e all’utilizzo della posta elettronica e degli altri strumenti digitali, stabilendo addirittura degli orari in cui i lavoratori non dovrebbero usarli, anche in Italia alcune linee guida della legge n.81 del 2017 disciplinano alcuni aspetti dello smart working, prevedendo che venga stipulato un accordo scritto tra le parti relativo alle modalità del lavoro agile che includa l’individuazione dei «tempi di riposo del lavoratore, nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro». Tuttavia, la legge in questione non ha di fatto introdotto un vero e proprio diritto alla disconnessione, né ha previsto sanzioni per quei datori di lavoro che ne dovessero ostacolare la tutela.

Fortunatamente, lo scorso dicembre, dopo mesi di contrattazioni, il ministero del Lavoro e i sindacati hanno firmato un protocollo che contiene anche indicazioni specifiche per definire l’accesso allo smart working in condizioni normali e non di emergenza e che, finalmente, include il diritto alla disconnessione, cioè l’individuazione di una fascia oraria in cui «il lavoratore non eroga la prestazione lavorativa».

Disconnessione e carriera

Una questione che, tuttavia, non è ancora stata presa adeguatamente in considerazione, è il problema dello stigma attribuito alle persone che invocano il proprio diritto a disconnettersi e le conseguenti ripercussioni negative sulla carriera professionale. Problematica che di fatto riduce l’inclinazione dei lavoratori a disconnettersi, portandoli spesso a lavorare più del dovuto anche in assenza di una richiesta esplicita da parte dell’azienda. Consapevoli di questa situazione, alcune aziende hanno cercato di sviluppare soluzioni più o meno creative per indurre i dipendenti a rispettare i tempi di disconnessione, soprattutto riguardo alla gestione delle email.

Come ha affermato – sul sito The Conversation – Ope Akanbi, esperta di regolamentazione del lavoro digitale e docente di comunicazione professionale all’Università Ryerson di Toronto, in Canada, il punto cruciale risiede nel fatto che gli strumenti necessari per svolgere lavori intellettuali non sono limitati a uno spazio di lavoro, a differenza del lavoro fisico di un operaio, per esempio. E in assenza di questi vincoli fisici ridefinire i ritmi e la durata del lavoro rimane un esercizio in gran parte culturale, cioè legato alle abitudini e alle pratiche diffuse sul proprio luogo di lavoro, che variano da caso a caso.

Questione di cultura

A fronte dell’incapacità – e forse anche dell’impossibilità – delle strutture istituzionali di proteggere il tempo personale, quindi, ai lavoratori non resterebbe altro modo di prevenire il sovraffaticamento e gli effetti negativi dell’eccesso di lavoro se non gestendo in autonomia i propri orari di lavoro, ma questo processo presuppone che i lavoratori abbiano il controllo dei propri orari di lavoro, condizione che può variare moltissimo a seconda del tipo di lavoro svolto, dell’anzianità e delle politiche aziendali, tra le altre cose.

Tradurre un diritto alla disconnessione nei termini di un’autorizzazione a rifiutarsi di rispondere alle email dopo le 17, secondo Akanbi, sarebbe utile a contrastare una certa cultura del lavoro frenetico ma non sarebbe sufficiente a favorire un cambiamento culturale delle politiche aziendali necessario e molto più ampio, che tenga in conto anche le specifiche preferenze dei dipendenti.

Infatti, eventuali leggi sul diritto alla disconnessione pensate in termini di rigida limitazione degli orari di lavoro, oltre che difficilmente applicabili, potrebbero anche essere poco adatte alle suddivisioni autonome del tempo di lavoro e del tempo personale praticate da chi svolge lavori intellettuali.

Quale soluzione?

Per evitare i problemi connessi all’eccesso di lavoro e al rischio di burnout, conclude Akanbi, le aziende dovrebbero piuttosto concentrarsi sulla flessibilità e offrire ai dipendenti maggiore autonomia riguardo alla loro disponibilità. Cosa che richiederebbe ai datori di lavoro di avere in generale più fiducia nei propri lavoratori e nelle proprie lavoratrici, non soltanto riguardo al risultato del lavoro ma anche rispetto alle capacità di controllo autonomo sui confini tra l’attività lavorativa e quella non lavorativa.

Ancora una volta, quindi, la soluzione risiede in un cambio di mindset aziendale, che favorisca la politica della fiducia rispetto alla – ormai superata e non più adeguata – mentalità del controllo.

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