Curriculum: cosa tagliare quando si è arrivati a metà carriera?

Sintesi, grande dote. Quando si iniziano ad accumulare anni di lavoro ed esperienze professionali, è spesso difficile fare una scelta per evitare CV chilometrici. Cosa togliere? Cosa no? Quali aspetti colpiscono maggiormente gli HR Manager? Ne abbiamo parlato con chi riceve ogni giorno centinaia di CV da visionare. Lo abbiamo chiesto a Silvia Doniselli, Career Coach di INTOO – società di Gi Group Holding

Silvia Doniselli

Come scrivere al meglio un curriculum vitae una volta arrivati a metà della carriera è una domanda frequente che le persone si pongono quando è necessario cambiare luogo di lavoro o posizione. Non si tratta tanto di tagliare ciò che appare un “di più”, ma piuttosto di chiedersi in quale direzione si vuole andare, per poi focalizzare il CV su quegli aspetti che si sono identificati come prioritari.  È così che la pensa Silvia Doniselli, Career Coach di INTOO – società di Gi Group Holding, recruiter e head hunter, convinta che «è importante capire cosa si voglia fare “domani”, focalizzare l’obiettivo e raccontarlo per entrare a contatto con il mercato e dare una visione – e questo vale per esperienze pregresse tanto in aziende diverse quanto all’interno di una stessa azienda».

Dottoressa Doniselli, quali sono le priorità?

«In un momento in cui tante persone si stanno rimettendo in gioco, per una serie di motivi – tra cui anche la ricerca di un migliore work-life balance –, prima di rilanciarsi sul mercato occorre capire quale sia il proprio progetto. Un secondo punto essenziale è non creare CV eccessivamente lunghi, che non sono assolutamente funzionale al nostro obiettivo attuale e futuro: difficilmente questi curricula sono letti nella loro interezza».

 È quindi meglio incuriosire le persone fin dalle prime righe: è da lì che si decide se si ha voglia di proseguire o meno?

«Esatto. Si deve evidenziare immediatamente il focus, individuare le parole chiave e fornire subito una sorta di sintesi dell’intero profilo. È importante chiedersi cosa si voglia fare emergere e, soprattutto, tenere sempre a mente chi riceverà il curriculum».

 Questi suggerimenti valgono per ogni livello professionale?

«Certo, dall’impiegato al top manager, ma anche all’operaio, occorre saper dare una visione univoca e armonica di ciò che abbiamo fatto e di ciò che vorremmo fare, rispondendo a quella specifica ricerca per la quale stiamo mandando la candidatura. Nel caso volessimo inviare un’autocandidatura a un’azienda di nostro interesse – che non sta quindi cercando dichiaratamente nuovo personale – si deve ovviamente specificare per quale funzione si vorrebbe essere presi in considerazione, in modo da customizzare il testo e inviare una risposta singola, precisa e individuale. Insomma: inviare un curriculum non equivale a fare volantinaggio.  In questa situazione è necessario spiegare che le competenze possono essere riutilizzate in funzioni diverse. “Io posso essere la persona giusta”: questo è il messaggio che si deve dare».

 Un racconto preciso della propria identità professionale può essere utile anche per non cadere nel mismatch tra annuncio e candidatura?

«Sì, perché agevola la comprensione di chi sta leggendo il CV e perché spiega che determinate competenze sono state acquisite con specifiche modalità. In questo modo possiamo rispondere a posizioni che altrimenti vedrebbero automaticamente escluse determinati profili.

Ciò significa che una valutazione di sé stessi che può apparire secondaria può in realtà rivelarsi primaria per un altro specifico ruolo?

«Esattamente. Inoltre, non bisogna accontentarsi degli annunci: sebbene siano un canale comodo, non sono l’unico. Soprattutto nel nostro Paese la rete – il cosiddetto network – ha un valore molto alto. Nella propria rete rientrano gli ex colleghi e i contatti personali: ciò permette di arrivare a posizioni e a informazioni che non sono direttamente visibili. Infatti, può accadere di scoprire che in una certa azienda c’è necessità di una precisa figura, di un profilo, di una qualifica o di una competenza. A tutti noi è capitato di sapere da amici o conoscenti che il loro posto di lavoro era alla ricerca di una specifica figura professionale. Resta però essenziale sapere come rivolgersi al mercato target, cioè pensare a chi potremmo interessare».

 Riguardo alla lunghezza del CV, invece, esistono vincoli?

«Il CV deve essere sintetico, ma non troppo, almeno quando si ha a che fare con chi è arrivato a metà carriera. Il modello europeo è richiesto quasi esclusivamente per figure che agiscono in ambito pubblico e per gare pubbliche. I formati anglosassoni tendono a non andare oltre la singola pagina, anche se è evidente che la lunghezza dipende dal grado di seniority a cui si è arrivati. Anche in Italia, in realtà, si sta andando pian piano nella stessa direzione. Altro aspetto importante è evidenziare i risultati raggiunti».

 In che modo?

«Comunicando concretezza: i risultati concreti, sul piano operativo e relazionale, sono infatti importanti. Se si tratta di figure manageriali occorre dimostrare di saper gestire i team o di relazionarsi con i clienti, a seconda dell’ambito. Poi, ovviamente, bisogna porre attenzione alla parte tecnica».

 Prima accennava al work-life balance: ritiene che sia una necessità da evidenziare?

«Ritengo che sia meglio parlarne a voce in fase di colloquio piuttosto che scriverlo sul curriculum: ci sono infatti aziende che non prevedono lo smart working. Durante il colloquio, invece, bisogna far quadrare le esigenze dell’azienda con le proprie». 

Darebbe suggerimenti diversi a giovani e persone con più esperienza? E fino a quando si è considerati giovani?

«Oggi chi ha 45 o 50 anni, diversamente da qualche tempo fa, ha ancora molti anni di lavoro davanti a sé. La storia professionale attuale è diversa da quella del passato: si inizia generalmente a lavorare dopo e la previsione di vita professionale si è decisamente allungata. Perciò anche l’età anagrafica acquista un valore diverso. A 35-40 anni, insomma, si è ancora giovani. C’è chi decide di cambiare completamente vita, di uscire dall’azienda, di mettersi in proprio: dipende dalle situazioni. Non voglio far passare l’idea che il mercato italiano sia simile a quello statunitense, perché non è così. Tuttavia, nonostante in Italia sia effettivamente difficile cambiare settore, sempre più spesso capita di cambiare vita, fatta eccezione per coloro che entrano in aziende disposte invece a valutare anche gli outsider. In questi casi funziona senz’altro il network, più di altre modalità.  L’importante, in ogni caso, è avere grande consapevolezza di ciò che si intende fare e questo accade, di solito, quando si è raggiunta una certa maturità»

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