Dipendenti al centro: un nuovo modello di HR services contro il fenomeno delle grandi dimissioni

Dalla formazione alla valutazione della crescita professionale, dalla misurazione delle skill individuali alla digitalizzazione e al networking, RGI ha ideato un nuovo modello di corporate HR per affrontare e rispondere a temi attuali come quello della great resignation e del quiet quitting, oltre che per gestire i talenti in un settore ad elevati tassi di specializzazione. Abbiamo chiesto ad Andrea Marchesini, Chief Human Resources Officer di RGI, cosa significa porre il dipendente al centro.

Andrea Marchesini

Ci può spiegare perché le risorse umane sono un asset strategico per il vostro gruppo, anche in considerazione del settore IT in cui operate?

 L’IT (Information Technology) ha visto crescere esponenzialmente la richiesta di persone con competenze specifiche, anche alla luce del fatto che si tratta sia di un comparto verticale – dove ci confrontiamo con i nostri diretti competitor, tra cui i giganti Google, Amazon e così via – sia di un settore cross, che riguarda cioè diverse tipologie di aziende. La competizione è enorme e a fare la differenza sono le persone e, ancor di più, è come si riesce non solo a mantenerle, ma a farle crescere nel tempo.

Per quanto ci riguarda, lavorando in ambito insurance, il nostro specifico “why” è quello di abilitare le compagnie di assicurazione, che a loro volta devono proteggere i loro clienti, e lo facciamo attraverso la profonda conoscenza sia delle soluzioni tecnologiche che del mercato di riferimento. Le risorse umane diventano quindi il punto centrale di tutta la nostra strategia aziendale, dal modo in cui riusciamo ad attrarle e a trattenerle, a come le facciamo evolvere dal punto di vista delle competenze.

Come individuate le competenze e come questo si inserisce nella vostra cultura aziendale?

Chi lavora con noi, oltre alle specifiche competenze tecniche, deve avere un set di soft skill che abbiamo individuato in un modello proprietario. Deriva da un profondo lavoro di analisi che abbiamo svolto su due livelli: abbiamo preso in considerazione da un lato le competenze che in azienda hanno storicamente permesso di avere più successo, con una correlazione anche statistica rispetto ai modelli di performance, e dall’altro quelle che riconosciamo come necessarie a sviluppare il nostro piano strategico futuro.

Il modello si chiama “CODE”, sicuramente un nome evocativo di quello di cui ci occupiamo, il codice, ma che in questo caso è soprattutto l’acronimo che riassume quattro pillar fondamentali. “C” come “connect”, ossia il sapersi connettere e lavorare con gli altri: il team, i clienti, i fornitori e così via. “O” sta per “own”, in riferimento all’accountability: saper essere responsabili dei propri risultati. “D” riporta a “dare”, quindi osare, saper prendersi dei rischi, una cosa molto importante per noi che ci occupiamo di innovazione, in primis dal punto di vista tecnologico, ma anche di come facciamo comunicazione, di come gestiamo le risorse umane e via dicendo. Infine, “E”, che sta per “evolve”, evolvere, e riguarda tutta la crescita personale e del proprio team.

In che modo sono coinvolti i manager?

Per i manager abbiamo messo a punto uno specifico programma di formazione in quest’ottica, perché per primi devono strutturare i loro feedback su questo modello di competenze. Si tratta di un modello piuttosto articolato, che viene applicato man mano rispetto al grado di seniority della risorsa. Per esempio, l’aspetto inerente alla strategia, che è all’interno del pillar “own”, non viene richiesto per le figure junior, ma solo a partire da un certo grado di seniority, con un livello di complessità crescente. Quindi al middle management si chiede di comprendere la strategia e di portarla nel lavoro di tutti i giorni, al top manager invece di contribuire in prima persona alla sua creazione. Abbiamo formato i nostri manager non solo per “leggere” questi aspetti, ma anche per aiutare le persone a crescere, dando loro a disposizione uno strumento di chiarezza, come se fosse una bussola, in termini di percorso di carriera.

Qual è, in particolare, il ruolo della formazione e quali gli obiettivi?

 L’Academy di RGI è sempre stata un nostro fiore all’occhiello. Negli ultimi tre anni, oltre a formare i nostri clienti e, internamente, le nostre persone sui temi tecnici, abbiamo aumentato sensibilmente anche le ore formative dedicate alle competenze soft. Facciamo formazione tradizionale in aula, per esempio sui manager, come raccontavo prima, e abbiamo sviluppato una piattaforma di e-learning che ci permette di offrire percorsi formativi sempre più personalizzati per ogni dipendente, a seconda del grado di seniority, delle competenze e della carriera. In questo senso, per portare le persone a bordo e stimolarle a raggiungere gli obiettivi formativi nei modi e nei tempi richiesti, stiamo anche aumentando l’offerta delle modalità e dei linguaggi formativi, con l’aggiunta per esempio di progetti di gamification, così come di iniziative “gym”, una sorta di palestra virtuale dove i dipendenti possono provare a mettere in pratica le cose che hanno imparato. Si tratta di uno sforzo non indifferente, che però sta dando i suoi frutti.

Cosa significa per voi “ascoltare i collaboratori” e come l’ascolto viene messo in pratica concretamente?

L’ascolto per noi è un tema fondamentale, tant’è che post Covid abbiamo messo a punto un nuovo modello di employee value proposition, rispetto al quale trimestralmente misuriamo il gradimento delle persone attraverso una survey che ci permette di ottenere migliaia di dati quantitativi, e di commenti su come le nostre persone valutano la formazione, la comunicazione, i benefit e così via. Oltre a questo, facciamo anche survey mensili che si compilano in pochi minuti, ma che ci permettono di approfondire quegli aspetti che emergono come poco funzionanti, condividendo poi il riepilogo dei risultati con tutti i dipendenti.

Si consideri anche che, come segnale forte da parte dell’azienda, tutto il management ha una parte dei bonus legato alla soddisfazione dei dipendenti.

Oltre a questo, abbiamo misurato le relazioni che le persone sviluppano all’interno dell’azienda tramite una organizational network analysis. Tutti i dipendenti, in modo molto trasparente, hanno ricevuto un report personale dell’analisi, che ci ha permesso anche in maniera più ampia di valutare come si comportano i team, come lavoriamo a livello di country ecc.

Come tutto questo si traduce in strategie di employee retention e su cosa puntate in particolare?

Come nel nostro stile, anche su questo aspetto abbiamo individuato quattro punti cardine per fare retention.

Il primo è “Clarity”, che vuol dire trasparenza: le persone hanno chiarezza sul percorso di carriera, sui benefit e via dicendo. Il secondo è “Growth”, appunto lo sviluppo delle persone, il terzo è “Ascolto”, come abbiamo visto e il quarto “Engagement”, per cui abbiamo creato le figure dei local engagement manager, che a livello locale propongono e organizzano iniziative di ingaggio più “vicine” alle persone. Ci sembra che tutto questo stia funzionando bene, anche a giudicare dalla diminuzione del turnover, che per noi è comunque sempre restato in scala rispetto alla media, soprattutto se consideriamo quello delle cosiddette “key people”, che oggi posso dire è tendente allo zero.

Quali sono, infine, le strategie rivolte ad attrarre i nuovi talenti?

Prima di tutto comunichiamo in fase di ingresso in maniera chiara quella che è la nostra value proposition: total reward, percorso di carriera, ambiente di lavoro e tutto quello che abbiamo spiegato sino a ora, sempre con la massima trasparenza sia da parte di chi si occupa di recruiting sia da parte dei manager.

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