Come gestire la mobilità internazionale: Blue Card, remote working e best practice HR
Quali strumenti normativi e organizzativi le aziende possono utilizzare per gestire al meglio talenti in mobilità? Lo abbiamo chiesto ad Andrea Benigni, CEO di ECA Italia e autore del libro “Talenti Internazionali” (FrancoAngeli)

In un contesto competitivo che sempre più supera i confini nazionali, la mobilità internazionale può diventare una leva strategica. Eppure, strumenti come la Blue Card europea o il remote working internazionale, restano spesso fraintesi o applicati in modo disomogeneo. Per quale ragione e come si può cambiare questa tendenza? Ne discutiamo con Andrea Benigni, CEO di ECA Italia e autore del volume “Talenti Internazionali” (FrancoAngeli), che da oltre trent’anni affianca le Direzioni HR nella progettazione e nella governance dei processi di global mobility.
Blue Card: un potenziale ancora inespresso
Il recente D.Lgs. 152/2023 ha ampliato l’accesso alla Blue Card, il permesso europeo di soggiorno e lavoro destinato ai cittadini extra UE altamente qualificati. La novità è che, dal novembre 2023, non è più necessario il possesso di una laurea almeno triennale.
“Con il provvedimento di fine 2023 è diventato possibile entrare in Italia per motivi professionali anche con una certificazione professionale o con un’esperienza lavorativa equivalente di almeno 5 anni (3 nel settore ICT), superando l’esclusività della laurea come criterio di qualificazione” spiega Benigni.
Si tratta di una modifica che interviene in modo diretto su uno dei nodi strutturali del mercato del lavoro italiano: la difficoltà a reperire figure tecniche e specialistiche. “Questa novità avrebbe dovuto generare un vero e proprio “terremoto” negli uffici di selezione delle nostre imprese, che faticano a trovare ingegneri, tecnici specializzati come meccatronici, esperti di meccanica di precisione o sviluppatori IT. Ma molte aziende non ne sono a conoscenza e, se non vengono informate dalle associazioni datoriali più strutturate o dalle società di consulenza, quando porti loro questa informazione spesso ti guardano con stupore”.
Il tema, però, non è solo organizzativo o informativo: tocca anche il modo in cui il Paese legge e rappresenta la questione migratoria. “Il vero nodo è che viviamo una fase in cui ogni tema rischia di essere strumentalizzato; e un argomento sensibile come l’immigrazione genera timori, anche quando, osservando i fabbisogni reali di molte imprese, potrebbe contribuire a risolvere più di un problema. Nel 2024 l’Italia ha richiesto circa mille Blue Card, la Germania circa 80mila. Dovremmo chiederci seriamente perché accade questo e affrontare la questione con analisi critica, non ideologica” commenta Benigni.
In quest’ottica, la Blue Card non è solo uno strumento amministrativo, ma una possibile leva di politica industriale e di risposta al talent shortage secondo Benigni: “Una strategia per contenere il talent shortage potrebbe consistere proprio nel ricorrere a una leva migratoria qualificata: molti Paesi sudamericani, asiatici o dell’area del Golfo e del Maghreb potrebbero rappresentare bacini interessanti, sia con riguardo alla qualità dei sistemi scolastici (in particolar modo le scuole tecniche) che relativamente al profilo demografico che combina requisiti qualitativi e quantitativi nettamente distinti da quelli italiani e della UE27: ricordo in tal senso che la blu card è uno strumento europeo. I costi di selezione aumenterebbero, ma sarebbero comunque inferiori a quelli che potrebbero derivare dallo stato della catena del valore che in molte aziende è in crisi per assenza di manodopera specializzata”.
International remote working: un modello in evoluzione
Se la normativa apre nuove possibilità di ingresso, l’altra direzione riguarda il lavoro da remoto internazionale, alternativa tangibile all’espatrio. “L’international remote working è una soluzione organizzativa in cui, ad esempio, un’azienda con sede in Italia individua una risorsa residente in Francia, dove l’azienda interessata non ha una stabile organizzazione. Una volta selezionato il candidato, l’azienda italiana procede con l’assunzione secondo le regole francesi, pur non disponendo di una branch o di una legal entity in quel Paese” osserva Benigni.
Secondo il CEO di Eca Italia, la spinta verso questo modello organizzativo nasce da una discontinuità che ha cambiato profondamente le logiche di lavoro: “La pandemia ci ha dimostrato che produttività e performance possono conciliarsi efficacemente con lo smart working. La discontinuità organizzativa di quegli anni ha messo in luce come lo smart working possa evolvere in “international remote working”, diventando – al pari della leva migratoria – una risposta al talent shortage, ampliando in modo significativo, per alcune figure professionali, il bacino di reclutamento”.
I dati confermano una tendenza ancora contenuta, ma crescente. “Secondo una survey dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, condotta in partnership con ECA Italia, al 31 dicembre 2024 il remote working internazionale in Italia è ancora poco diffuso, ma l’interesse è in forte crescita. Su un panel di oltre 300 imprese, il 29% delle grandi aziende coinvolte (con almeno 250 dipendenti) ha già adottato modelli di remote working internazionale, mentre solo il 3% delle PMI è attivo su questo fronte: segno di un fenomeno ancora in fase embrionale nel nostro Paese” precisa Benigni. “Tra le aziende che hanno adottato il modello, il 45% indica come motivazione principale l’attrazione di talenti difficili da reperire localmente, mentre il 31% lo utilizza soprattutto per la retention di profili strategici”.
Benigni sottolinea che non si tratta di un fenomeno marginale, ma di un cambio di paradigma emergente: “Ne emerge che il remote working internazionale viene percepito come una leva di competitività e fidelizzazione. Nella quotidianità di ECA Italia ho la possibilità di osservare il fenomeno da vicino: oggi i nostri team gestiscono circa 70 progetti legati a piani di sviluppo organizzativo di aziende italiane che hanno individuato nel remote working internazionale un fattore critico di successo per le loro strategie di recruiting e gestione delle risorse. È un dato che non ha valore statistico assoluto, ma è fortemente indicativo di un’evoluzione in corso”. Il quadro si complica sul piano normativo e di gestione operativa, dove emerge il ruolo centrale dell’HR.
“I punti di attenzione principali riguardano il presidio della compliance amministrativa, fiscale e previdenziale, in un processo di gestione altamente sfidante: l’azienda italiana deve garantire l’applicazione corretta del contratto di lavoro secondo le regole del Paese in cui la prestazione viene resa, pur non disponendo lì di una stabile organizzazione. È proprio in questa complessità organizzativa che si concentra uno dei principali challenge operativi, ed è su questo terreno che l’HR Manager è chiamato a esercitare al massimo la propria capacità di analisi, valutazione del rischio e visione strategica”.
Gestione degli espatriati: dalla risposta all’urgenza a processo strutturato
La gestione degli expat rappresenta una delle aree più delicate della mobilità internazionale, dove la funzione HR è chiamata a coniugare visione, competenza tecnica e capacità operativa. “La prima buona pratica consiste in un corretto orientamento al benchmarking. Gli HR sono particolarmente abili nel fare networking tra loro, e un passaggio essenziale è confrontarsi con colleghi che hanno già affrontato la gestione degli espatri con la giusta impostazione” dice Benigni.
“Quando questo avviene in modo strutturato – continua – emerge chiaramente che una buona organizzazione nasce da una combinazione di metodo e regole. La gestione degli expat richiede una policy chiara, che attribuisca autorevolezza alla funzione HR e le consenta di impostare correttamente sia il sistema retributivo di espatrio, sia il planning fiscale transnazionale relativo a manager e specialisti espatriati, oltre agli aspetti più delicati in ambito legale e previdenziale”.
Un aspetto spesso sottovalutato riguarda la compliance migratoria, che spesso il business tende a sottovalutare, ma che nel nostro Paese è davvero impossibile ignorare. Per costruire processi solidi, secondo Benigni, “è necessario aggiornarsi, analizzare survey e approfondimenti sul tema della mobilità internazionale e selezionare con cura il provider giusto, valutandone la rete di relazioni internazionali e il tipo di network che può mettere a disposizione di un piano di espatrio, misurando la seniority dei team di lavoro che entrano in relazione con gli staff HR. Domani questi consulenti dovranno confrontarsi in molti casi anche con i candidati all’espatrio ed è necessario avere la certezza sul loro “grade” e capacità di tenere un confronto, in alcuni casi, anche con dei top manager che devono comprendere cosa significherà andare a lavorare all’estero sul piano retributivo, fiscale, previdenziale, migratorio”.
Se correttamente governato, il processo di mobilità può diventare una leva strategica per l’impresa, e non la reazione a un’urgenza organizzativa. “Al centro di tutti questi passaggi c’è l’organizzazione di una policy che, se ben integrata nell’ecosistema aziendale, trasforma l’espatrio in un processo strutturato, non in una gestione episodica, magari figlia di un’emergenza organizzativa” conclude Benigni.



