IA e lavoro: qual è l’impatto sociale e psicologico su azienda e dipendenti?

L’uso dell’intelligenza artificiale nei posti di lavoro è una tematica sempre più attuale per la dirigenza HR: è lecito, e anzi necessario, porsi interrogativi e dubbi sull’impatto a 360 gradi di queste nuove tecnologie sui dipendenti. Come potrebbero cambiare le mansioni tradizionali, da quelle più meccaniche a quelle più complesse e creative?

Nicola ladisa

HR Link ha raccolto la riflessione in tema di IA e lavoro di Nicola Ladisa – HR & Organization Director Holding De Agostini Group

Tanti a spingere l’idea che la tecnologia sia lo strumento fondamentale per migliorare il lavoro e la vita delle persone, molto di più rispetto al passato. Un osanna alla evoluzione tecnologica 5.0, sostenuta dalla “intelligenza artificiale”.

Suggerirei meno slancio enfatico per tutte le applicazioni dell’IA, in modo quasi indiscriminato, in una giostra di eccitazione, senza un minimo barlume di capacità riflessiva e critica. Vero, il cambiamento è già iniziato ed è inevitabile. Oltre ad essere un luogo comune presentato e proposto come per forza positivo, il tema vero è che il business in gioco è enorme, quindi proseguirà imperterrito.

Ma in quanti saranno contenti? Siamo pronti ad un mondo senza lavoro? Se sostituiti dalla IA in larga parte, se non del tutto, nelle attività che oggi svolgiamo, saremo soddisfatti veramente?

Molti studi riportano che nei prossimi 15 anni la maggior parte dei lavori esistenti non ci saranno più a causa della sempre più ampia automatizzazione e delle molteplici applicazioni della intelligenza artificiale. 

Cosa faremo realmente? Saremo solo degli utilizzatori di servizi?

L’impatto sociale è devastante, abituati come siamo a pensarci occupati a lavorare. Persino la nostra Costituzione è fondata sul lavoro: sarà evidentemente un altro tipo di lavoro, diverso da quello inteso fino ad ora, perché cambieranno le competenze e i processi aziendali con l’arrivo della “Generative AI”. 

Chi dovrà “riqualificarsi”, per la prima volta, non saranno gli operatori di macchinari, ma i cosiddetti “colletti bianchi” in senso lato: giornalisti, insegnanti, grafici, medici, traduttori, amministrativi, manager, avvocati e via discorrendo.

Magari si “salveranno” inizialmente i “creativi, i “progettisti” e “gli innovatori”, fintantoché gli algoritmi saranno così sofisticati da pretendere di sostituire anche le caratteristiche più proprie dell’essere umano. Anche accettando un livello più basso delle qualità: sarà sufficiente abituarsi e accontentarsi.

Intanto attrezziamoci a sviluppare le competenze per diventare Data Scientist, Data Engineer, Data Analyst, Artificial Intelligence Specialist, Cyber Security Specialist, Machine Learning Engineer, Big Data Developer, Mobile developer.

Sarà necessario per trovare un lavoro, nella speranza che oltre alle competenze STEM si desidererà avere ancora quelle squisitamente umanistiche e filosofi, psicologi e sociologi saranno ritenuti utili alle aziende e al sistema Paese, a salvaguardia delle capacità riflessive e critiche oggi diffuse nella società.

Al contempo, c’è da considerare che nel mondo moderno e tecnologico – centrico sta crescendo la solitudine al lavoro. È già forte la preoccupazione che la salute mentale di chi lavora possa essere indebolita con conseguente riduzione della produttività e della soddisfazione personale.

Per le organizzazioni aziendali è già critico implementare strategie adeguate a rafforzare il senso di appartenenza, sviluppando programmi di well-being e di utilizzo appropriato della tecnologia, spingendo comportamenti per creare un ambiente di lavoro sano.

In effetti, penso che sia perlomeno “complicato” per l’essere umano gestire simultaneamente il “reale” e “il virtuale”. Temo che non abbiamo le capacità neurologiche e che sussista un rischio elevato di sofferenza psichica. Credo, dunque, che questo tipo di evoluzione tecnologica non sia così “salutare”.

Quindi chiediamoci: ma chi ce lo fa fare? È così giusto accettare passivamente dicendoci “tanto è inevitabile”?

Auspico che quando la IA sarà così diffusa nelle nostre organizzazioni, avremo già sviluppato un livello di etica e di normativa che abbia l’obiettivo di avere l’umanità intera in una situazione più che sicura. 

La vera speranza è che già da ora lo sviluppo dei prodotti che applicano la IA siano progettati con i giusti ingredienti etici e morali. 

Concludo con il mio desiderio che il digitale e l’umanistico possano avere una connessione, ma per differenziarsi. L’ibridizzazione è da rifuggire: umanità e algoritmi sono aspetti completamente diversi. Nessuno dovrebbe avere aneliti divini per creare una “macchina umana”.

 

Nicola Ladisa HR & Organization Director | Holding De Agostini Group

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