Illegittimità del licenziamento: le prime sentenze tra criticità e dubbi

il D.Lgs. 23/2015 attuativo del c.d. Jobs Act è intervenuto a dettare la nuova normativa in tema di tutele in caso di dichiarata illegittimità del licenziamento per tutti quei lavoratori assunti a far data dal 7 marzo 2015. Per questi ultimi, a cui si applica il c.d. contratto a tutele crescenti, la possibilità della reintegrazione a seguito dell’accertata illegittimità del licenziamento diventa un’ipotesi del tutto residuale e marginale

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Sul tema dei licenziamenti HR-Link ha già pubblicato in passato un editoriale dell’avvocato Gabriele Fava: a distanza di più di un anno è interessante osservare quali siano state le ricadute dei provvedimenti messi in atto su questo delicato argomento.

Come noto, il D.Lgs. 23/2015 attuativo del c.d. Jobs Act è intervenuto a dettare la nuova normativa in tema di tutele in caso di dichiarata illegittimità del licenziamento per tutti quei lavoratori assunti a far data dal 7 marzo 2015. Per questi ultimi, a cui si applica il c.d. contratto a tutele crescenti, la possibilità della reintegrazione a seguito dell’accertata illegittimità del licenziamento diventa un’ipotesi del tutto residuale e marginale.

Tale sanzione, infatti, è prevista esclusivamente per i licenziamenti discriminatori, nulli, inefficaci (in quanto intimati oralmente), e per i licenziamenti disciplinari, di cui venga accertata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, senza che rilevi la proporzionalità del provvedimento espulsivo in relazione al fatto commesso dal dipendente. In tutti gli ulteriori casi di accertata illegittimità del licenziamento, la tutela consiste unicamente in un indennizzo economico ed il rapporto di lavoro si intende come definitivamente risolto alla data dell’intimato licenziamento.

Passati ormai più di due anni dall’entrata in vigore del c.d. contratto a tutele crescenti, bisogna osservare che, nonostante la normativa di cui al D.Lgs. 23/2015 nelle intenzioni del Legislatore avesse la specifica funzione di chiarire e semplificare il quadro delle tutele in caso di licenziamento illegittimo, i contenziosi sorti a riguardo hanno fatto emergere dubbi interpretativi e orientamenti giurisprudenziali divergenti su un certo numero di tematiche.

 

Illegittimità del licenziamento: le prime criticità emerse

Uno dei primi problemi interpretativi che le recenti riforme del diritto del lavoro (Riforma Fornero prima e Jobs Act successivamente) hanno sollevato è la definizione stessa di “insussistenza del fatto contestato” che, come precedentemente riportato, è discriminante per l’applicazione al licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo della tutela reintegratoria o della mera tutela indennitaria.

Una delle principali critiche mosse al nuovo impianto sanzionatorio è consistita nell’osservazione che, qualsiasi comportamento, seppur minimo, del lavoratore che si potesse, però, definire quale “sussistente”, a cui fosse seguito un licenziamento disciplinare, avrebbe escluso la possibilità di reintegra nel posto di lavoro.

Sulla questione è intervenuta la Cassazione che con due sentenze (n. 20540/2015 e n. 20545/2015, riferite a fattispecie disciplinate dalla normativa di cui alla Legge Fornero, ma analogicamente applicabili ai lavoratori assunti con le c.d. tutele crescenti) ha sottolineato che “non è plausibile che il Legislatore, parlando di insussistenza del fatto contestato, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione” concludendo, quindi, che “la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione”.

 

 

Chi deve provare l’insussistenza del fatto contestato?

In aggiunta a quanto precede, deve segnalarsi che, non vi è, ad oggi, unanime interpretazione su chi gravi (lavoratore o datore di lavoro) l’onere probatorio di dimostrare in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato nei casi di licenziamento disciplinare.

L’art. 3, comma 2 del D.Lgs. 23/2015, infatti, stabilisce la reintegra nelle ipotesi di licenziamento per motivi disciplinari in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato, non prevedendo, però, su chi gravi l’onere di provare detta insussistenza. Sul punto, alcuni Tribunali di merito tra cui, per esempio, il Tribunale di Milano, hanno ritenuto che, non essendo prevista alcuna disciplina specifica all’interno del c.d. Jobs Act, debba ritenersi applicabile l’art. 5 della legge 604 del 1966 il quale pone a carico del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, onerandolo, per via interpretativa, anche della prova in giudizio in merito alla sussistenza o meno del fatto materiale contestato alla base del licenziamento disciplinare. Altri fori, invece, con una interpretazione sicuramente più in linea con il tenore letterale della normativa e, soprattutto, con la ratio della stessa, hanno concluso che l’onere di provare tale elemento debba (e non possa che) ricadere sul lavoratore licenziato.

 

La reintegra in caso di licenziamento per inidoneità alla mansione

Ulteriore aspetto incerto delle nuova disciplina è se, in caso di licenziamento per inidoneità alla mansione, debba applicarsi l’articolo 3 del D.Lgs 23/2015, o l’articolo 2 del medesimo Decreto. Il sopracitato art. 3 prevede che sia applicabile la sola tutela indennitaria nel caso di mancata dimostrazione del motivo oggettivo di licenziamento, mentre l’articolo 2 punisce il difetto di giustificazione del licenziamento consistente nella disabilità del lavoratore con la reintegrazione.

Una recente (23 giugno 2017) sentenza del Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, nel giudicare del licenziamento di una dipendente per inidoneità fisica non connessa ad alcun tipo di disabilità, ha ritenuto applicabile al caso di specie l’art. 2, con conseguente condanna alla reintegra della lavoratrice ingiustamente licenziata. Non pare, però, che una tale interpretazione “estensiva” della normativa sia giustificata in alcun modo e, stante il tenore letterale della norma in questione, sarebbe preferibile, invece, che il licenziamento per sopravvenuta inidoneità (a patto che la stessa non discenda da una disabilità in senso stretto) fosse ricondotto all’ipotesi prevista dall’articolo 3 con conseguente tutela indennitaria.

 

Conclusioni

Per concludere, la nuova normativa di cui al D.Lgs. 23/2015 ha generato più di qualche dubbio interpretativo; dubbi che le poche sentenze in materia sino ad oggi intervenute (poche perché riferite a rapporti di lavoro di recentissima costituzione, sorti dopo il 7 marzo 2015) hanno tutte sin da subito puntualmente sottolineato.  In assenza, pare, di un’attuale volontà da parte del Legislatore di rimettere mano alla materia chiarendo in via definitiva tali criticità interpretative, è necessario aspettare che i procedimenti attualmente pendenti in fase di merito giungano innanzi alla Suprema Corte di Cassazione affinché la stessa possa fare chiarezza sulle tematiche sollevate dai Giudici di primo grado e fornirne, finalmente, una interpretazione unitaria.

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