Job crafting: rimodellare il lavoro per vivere meglio
Il job crafting consente ai lavoratori di rivedere e ridefinire i confini del proprio ruolo professionale. Una pratica sempre più considerata all’interno delle organizzazioni, anche in relazione a modelli di leadership più attenti e a un rinnovato interesse per la motivazione individuale. Laura Borgogni, docente di Psicologia del lavoro, ne spiega la nascita e i vantaggi

“Migliorare il nostro modo di lavorare è una priorità”: a dirlo con profonda convinzione è Laura Borgogni, professoressa ordinaria di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni all’università La Sapienza di Roma e consulente per EY e diverse società. Da oltre trent’anni si occupa di ricerca e intervento per lo sviluppo del benessere e dell’engagement nei luoghi di lavoro: da diverso tempo rivolge un’attenzione particolare al job crafting, un particolare tipo di personalizzazione del lavoro di cui si parla già da inizio Duemila, ma che solo negli ultimi anni ha iniziato a essere applicato, non senza qualche difficoltà.
Che cos’è il job crafting
Il job crafting si basa in primo luogo sulla proattività individuale. Ovvero, laddove in altri contesti, come il job enrichment, sono i vertici aziendali o la direzione delle risorse umane a incentivare il rinnovo della rosa di compiti e responsabilità del dipendente, nel job crafting (da ‘to craft’, ‘plasmare, forgiare’, appunto) è la lavoratrice o il lavoratore a mettere in campo le proprie competenze e le proprie attitudini.
Job crafting significa plasmare il proprio lavoro in modo da utilizzare appieno inclinazioni personali, motivazioni e potenzialità: alcune persone, quindi, sfrutteranno al meglio le componenti legate ai task, altre invece quelle relazionali. L’individuo, dunque, mette in atto un insieme di comportamenti intenzionali senza che il capo ne faccia espressa richiesta: in questo senso, è una spinta che parte dal singolo.
“Chi pratica il job crafting – spiega Borgogni – sfrutta le proprie caratteristiche e inclinazioni nel lavoro, rendendolo più vicino ai propri interessi e motivazioni, valorizzando quindi le proprie capacità”.
Ciò che distingue questo approccio dagli altri è anche il fatto che queste caratteristiche sono altre da quelle normalmente sfruttate nei propri compiti tradizionali. “Si va oltre la descrizione formale del ruolo”, sottolinea la docente. Tra gli esempi più noti in letteratura, c’è probabilmente quello dell’infermiere: la sua capacità di ascolto e di empatia verso i familiari non è strettamente necessaria per svolgere il proprio lavoro – dove sono imprescindibili le conoscenze tecnico-pratiche e non solo -, ma sfruttare queste skill permette per esempio di curare meglio gli stessi pazienti e di rendere l’esperienza ancora più ‘umana’.
Il ruolo delle aziende
Anche se l’autonomia resta imprescindibile per ‘plasmare’ il proprio lavoro, una grossa responsabilità ricade sulle aziende. I dipendenti devono, appunto, poter essere in una qualche misura autonomi.
“Un capo che adotta un approccio di micro-managing capillare, per ogni attività, può quindi ridurre lo spazio d’azione degli altri individui e rendere più difficoltoso il job crafting. Il ruolo delle aziende, però, resta essenziale: spesso le persone non sanno cosa amano o cosa sanno fare bene e, talvolta, non sono neppure in grado di svolgere una corretta ed efficace autoanalisi” precisa Borgogni.
Portando ad esempio alcune esperienze di consulenza con Poste Italiane e Ferrovie, Borgogni sottolinea l’importanza di aiutare, tra l’altro, con corsi di formazione e attività mirate, lavoratrici e lavoratori a ri-scoprire se stessi e ciò che si è in grado di fare. Le aziende devono cioè innanzitutto lavorare sulla propria leadership e renderla innovativa e aperta al cambiamento e, d’altra parte, interiorizzare tutti questi aspetti nella propria cultura aziendale. Il rischio, altrimenti, è che il cambiamento sia fatto solo su carta.
Un alleato del cambiamento
“Lavorare sul job crafting è sempre più importante, in un contesto fluido e in continuo cambiamento, con l’introduzione massiccia dell’intelligenza artificiale, il cambiamento delle competenze e l’avvicendamento generazionale: oggi siamo tutti un po’ più artefici del nostro destino”, continua.
Come è stato anche confermato dalla letteratura scientifica, questo approccio ha ricadute benefiche su chi lavora e, di riflesso, sull’intera azienda. “Quando uno mette se stesso nel lavoro, usando ciò che ama e sa fare – spiega Borgogni -, aumenta giocoforza l’engagement. Cresce anche il senso di identificazione con il lavoro e con l’azienda e, di conseguenza, si riduce lo stress e il rischio di burnout. «C’è un doppio vantaggio: per le persone, che si sentono realizzate, e per l’azienda, che ne guadagna in produttività e benessere dei dipendenti”.
Il job crafting in Italia e in Europa
Nonostante sempre più lavoratrici e lavoratori chiedono un ripensamento del tradizionale modo di concepire il lavoro, sono ancora molto poche le aziende che agevolano il job crafting, perlomeno in Italia.
“Nel nostro Paese è una realtà poco conosciuta, che appare ancora come una novità, anche se i primi accenni risalgono addirittura al 2001”, spiega Borgogni. Tra le tante motivazioni, ci sono gli opposti delle piccole e grandi imprese: nelle prime, spesso a gestione familiare, c’è una generale tendenza a centralizzare le decisioni e la gestione di molteplici responsabilità, lasciando quindi un ristretto margine di iniziativa personale; nelle seconde, invece, l’apparato organizzativo tende a ingessare il processo decisionale o persino organizzativo.
“Nonostante una certa lentezza e difficoltà nell’applicazione pratica del job crafting, l’area della ricerca sul tema – conclude la docente – è molto sviluppata, soprattutto a livello europeo”.