Jobs Act e Referendum: una prima riflessione dopo la decisione della Corte Costituzionale

L’11 gennaio scorso la Consulta ha dato il via libera a due dei tre quesiti referendari proposti dalla CGIL su alcune disposizioni in materia di occupazione e licenziamenti contenute nel Jobs Act

avvocato gabriele fava

La Corte Costituzionale ha, in particolare, approvato i quesiti in materia di voucher e di responsabilità solidale delle imprese committenti nei contratti di appalto, mentre ha ritenuto inammissibile quello sul ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Anzi, rispetto a tale ultimo quesito, la Consulta ha chiarito che la richiesta della CGIL non si limitasse a domandare l’abrogazione delle nuove disposizioni in tema di licenziamento al fine di ripristinare le precedenti regole, ma, al contrario, puntasse a riscrivere tale disciplina. Constata tale natura “manipolitiva” del quesito, la Corte ha deciso che lo stesso non avesse i requisiti di ammissibilità richiesti.

A differenza del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso, quelli in questione hanno carattere abrogativo (sarà, quindi, necessario raggiungere il quorum del 50% più uno degli aventi diritto) e la data del voto andrà fissata tra il prossimo 15 aprile e il prossimo 15 giugno.

Tuttavia, visto l’attuale clima politico, non è escluso che il voto effettivo su tali referendum slitti di un anno a causa dell’indizione di elezioni politiche anticipate. Inoltre, il Parlamento potrebbe evitare il voto popolare approvando sua sponte modifiche alle parti della riforma che i referendum chiedono di abrogare. A dire il vero, sono già allo studio della commissione lavoro della Camera diverse proposte di riforma della regolamentazione dei voucher.

Se si arrivasse al voto, la eventuale prevalenza del sì porterebbe, da una parte, alla sostanziale abolizione dei voucher – determinando un vuoto normativo con riferimento a tutte quelle prestazioni lavorative non regolamentate (per ragioni quantitative o qualitative) attraverso altri contratti – dall’altro, all’ennesima riforma in materia di solidarietà nell’ambito dei contratti di appalto.

In realtà, a nostro avviso, entrambi i quesiti soffrono di un eccesso di miopia: piuttosto che reprimere l’abuso della norma, promuovendo un utilizzo più efficace degli strumenti di controllo (ispettivi e giudiziali) esistenti, si mira a spazzare via la normativa stessa. Si vuole, quindi, disfare l’ennesima tela di Penelope, cancellando tutto quanto già fatto, così regredendo al punto di partenza, piuttosto che investire risorse ed energie nel tentativo di selezionare quanto di buono già esiste con l’intento di miglioralo.

Un ritorno al passato in piena regola che, sebbene sia utile a venire incontro alle istanze populiste che si stanno imponendo anche nel nostro Paese, nulla ha a che vedere con la costruzione di un sistema di regole rispondente alle nuove condizioni di concorrenza globale, né con il rilancio dell’occupazione e, nel complesso, del nostro sistema economico.

Il fatto che la Corte Costituzionale abbia impedito la consultazione popolare sulle norme in materia di licenziamento, cuore pulsante della riforma del mercato del lavoro voluta da Renzi, va accolto, a nostro avviso, positivamente.

Oltre a condividere le ragioni di diritto alla base dell’inammissibilità, da un punto di vista strettamente socio-culturale, evitare battaglie mediatiche su vecchi totem potrebbe aiutare a superare gli stessi e a concentrarsi su temi più attuali e di gran lunga più sentiti da chi oggi affronta il mondo del lavoro.

Si potrebbe iniziare a discutere non di come cristallizzare per alcuni i diritti acquisiti dai lavoratori negli anni ’60 e ‘70, ma di come assicurare oggi a più persone un posto di lavoro con garanzie piene (a livello retributivo, previdenziale e assicurativo); di come la vera sfida da affrontare non sia impedire a un datore di lavoro di licenziare, ma costruire un mercato del lavoro dove l’accesso sia facile e la ricollocazione supporta, in base all’età e alle competenze; di come, prima ancora che alla patologia del rapporto, si dovrebbe pensare alla fisiologia dello stesso, prevedendo dei sistemi di agevolazione fiscale e contributiva che riducano il peso dello Stato sulle imprese e sui salari dei lavoratori.

D’altronde, come più volte osservato, non è procedendo a colpi di spugna che si può pensare di favorire ripresa economica e apertura del mercato del lavoro, quanto piuttosto attraverso mirati e ponderati interventi migliorativi. La normativa varata negli ultimi anni non è sicuramente perfetta, e i dati riguardanti la crescita e l’occupazione del Paese lo confermano, ma non è di certo eliminando per via referendaria ogni tentativo di riforma che si può realizzare la sperata inversione di tendenza. Recuperiamo un approccio critico e, al tempo stesso, costruttivo verso le soluzioni in essere, così, forse, almeno questa volta riusciremo a salvare la tela da Penelope.

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