Lavorare per le piattaforme digitali, stato dell’arte di tutele e diritti

Secondo i dati Inapp, i lavoratori delle piattaforme digitali rappresentano l’1,3% della popolazione tra i 18 e 74 anni, ovvero il 25,6% del totale di chi guadagna tramite internet, e non sono solo rider. Una tipologia di impiego che implica talvolta dei rischi per i lavoratori, tra cui la dubbia classificazione come subordinati o autonomi, ma anche le questioni relative alla sorveglianza remota, sempre più pervasiva, e alla discriminazione. Qual è lo stato dell’arte in materia di tutele e diritti di queste categorie e cosa aspettarsi in futuro?

lavoratore piattaforma

La veloce digitalizzazione della società intera e del mondo del lavoro in particolare sta cambiando radicalmente sia il modo di lavorare sia l’organizzazione stessa del lavoro mettendo in discussione norme e concetti giuridici consolidati e rendendo urgente la necessità di nuove regole a tutela dei lavoratori. L’assunto vale in particolar modo per i lavoratori delle piattaforme digitali, per i quali la complessità inizia già dalla classificazione degli stessi “platformer”, in bilico tra la categoria dei subordinati e quella degli autonomi, con il relativo rischi di ritrovarsi da un lato privati di diritti e tutele fondamentali e tipiche del lavoro subordinato e dall’altro di non godere della reale indipendenza garantita dal lavoro autonomo. Oltre alla classificazione, i nodi cruciali che emergono sempre con maggiore evidenza sono quelli legati alla sorveglianza – dal monitoraggio degli orari, dei turni e delle ore di lavoro fino ad applicazioni più complesse riguardanti l’assegnazione degli incarichi e il calcolo delle retribuzioni –, all’uguaglianza e alla discriminazione: è infatti difficile “catalogare” in maniera univoca i lavoratori per le piattaforme digitali sia a livello di tipologia di lavoro sia di lavoratore.
Come molte attività “sommerse” anche il lavoro tramite piattaforma si presta a condizioni di ridotta autonomia e a rapporti irregolari, se non addirittura a fenomeni di “caporalato”: circa tre lavoratori su dieci non hanno un contratto scritto, il 26% dei lavoratori non gestisce direttamente l’account di lavoro per accedere alla piattaforma e nel 13% dei casi il pagamento viene gestito da un ulteriore soggetto esterno. Inoltre, il 72% dei platformer ha dovuto sottoporsi a un test valutativo per poter lavorare con la piattaforma. Non solo: nel 59,2% dei casi il sistema più diffuso per la valutazione del lavoro svolto è quello legato al numero di impegni o incarichi portati a termine – confermando la centralità del sistema del cottimo orario –, seguito dal giudizio dei clienti (42,1%). Come se non bastasse, a una valutazione negativa o a una mancata disponibilità nello svolgimento degli incarichi, in quattro casi su dieci corrisponde un peggioramento del tipo di incarichi assegnati, con la riduzione delle occasioni di lavoro più redditizie rispetto al complesso degli incarichi (40,7%) e per il 4,3% dei lavoratori la valutazione negativa determina il mancato pagamento della prestazione svolta.

Chi è il platform worker

Secondo i dati Inapp, i lavoratori delle piattaforme digitali, che sono oltre 570 mila in Italia, rappresentano l’1,3 della popolazione di 18-74 anni, ovvero il 25,6% del totale di chi guadagna tramite internet. Per i tre quarti sono uomini, sette su dieci hanno un’età compresa tra trenta e 49 anni e non sono tutti rider, ma svolgono “un insieme eterogeneo di attività che vanno dalla consegna di pacchi o pasti a domicilio allo svolgimento di compiti on line (traduzioni, programmi informatici, riconoscimento immagini)”. A queste mansioni vanno aggiunti coloro che vendono prodotti (piattaforme pubblicitarie) o affittano beni di proprietà (piattaforme di prodotto) per un totale complessivo di ben 2.228.427 di individui, pari al 5,2% della popolazione tra i 18 e i 74 anni, che dichiarano di aver ricavato un reddito attraverso le piattaforme digitali tra il 2020 e il 2021. A livello culturale, il titolo di studi più diffuso tra i platform worker è il diploma, anche se chi lavora tramite piattaforme come attività principale ha spesso livelli di istruzione più elevati, mentre chi lo fa occasionalmente ha in linea di massima titoli di studio più bassi. Per quanto riguarda invece la composizione familiare, il 45,1% dei lavoratori delle piattaforme appartiene alla tipologia “coppia con figli”, ma la quota sale al 59,1% nel caso di occupati che lavorano per le piattaforme come attività secondaria; non solo: tra i platformer occasionali, il 37,9% è single.

La proposta Ue

Già all’inizio del suo mandato come presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen aveva dichiarato l’impegno per migliorare le condizioni del lavoro mediante piattaforme digitali, impegno che ha originato una proposta di direttiva adottata il 9 dicembre 2021 e che si pone tre obiettivi: garantire la corretta qualificazione giuridica del platform worker, anche assicurando l’accesso ai diritti posti a tutela del lavoro, come la protezione della salute e della sicurezza – compresa la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali –; garantire l’equità e la trasparenza nell’uso di pratiche di gestione algoritmica; migliorare la trasparenza, la tracciabilità e la consapevolezza delle evoluzioni future e migliorare l’applicazione delle norme nei singoli Paesi. Inoltre, viene introdotta la presunzione legale di subordinazione, in presenza di almeno due degli elementi espressamente indicati all’art. 4 (retribuzione, regole vincolanti, supervisione, mancata autonomia organizzativa, lavorare per terzi).

Algoritmi al posto dei manager

L’elemento che caratterizza – pericolosamente – il lavoro su piattaforme digitali è la gestione algoritmica dei rapporti di lavoro, ovvero il fatto che i sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati basati su algoritmi stiano assumendo nelle imprese un ruolo sempre maggiore, arrivando sino a sostituire le decisioni prima assunte dai dirigenti: assegnano compiti, impartiscono istruzioni, valutano il lavoro svolto, offrono incentivi o impongono sanzioni, il tutto spesso senza che i lavoratori ne siano consapevoli e addirittura non abbiano neppure informazioni su quali dei loro dati personali vengano utilizzati o come il loro comportamento incida sulle decisioni prese dai sistemi automatizzati. Per questo motivo sono stati introdotti alcuni obblighi (come l’informazione specifica sui sistemi di monitoraggio utilizzati dalla piattaforma, sui sistemi utilizzati per prendere quelle decisioni che incidono significativamente sulle condizioni di lavoro dei lavoratori delle piattaforme digitali) e alcuni diritti (in primis il riesame umano delle decisioni significative) volti a tutelare, indifferentemente, tutti coloro che svolgono un lavoro mediante piattaforma digitale con o senza un contratto o un rapporto di lavoro.

L’ordinamento italiano: sempre più trasparenza

In Italia, il decreto legislativo del 27 giugno 2022 si muove proprio in direzione di una maggiore trasparenza nel rapporto di lavoro, introducendo disposizioni che disciplinano le informazioni sul rapporto di lavoro, le prescrizioni minime relative alle condizioni di lavoro, nonché una serie di ulteriori misure a tutela dei lavoratori: il diritto di informazione, per esempio, si estende a tutti i lavoratori del settore pubblico e privato e interessa ogni tipologia di contratto anche non standard e, “nei limiti della compatibilità”, anche i rapporti di collaborazione con prestazione personale e continuativa. Le informazioni riguardano non solo il momento dell’assunzione ma anche ogni modifica che interviene nel corso del rapporto, con il chiaro obiettivo di ampliare e rafforzare gli obblighi informativi del datore di lavoro e introdurre misure di tutela in favore del lavoratore, anche a fronte di comportamenti ritorsivi del datore di lavoro.

Un capitolo a parte è dedicato agli obblighi informativi nel caso di utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati (i famigerati algoritmi) deputati a fornire indicazioni rilevanti che vadano a incidere sul rapporto di lavoro ai fini della assunzione o del conferimento dell’incarico, della gestione o della cessazione del rapporto di lavoro, dell’assegnazione di mansioni e così via.

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