Ho litigato con un collega: è il momento di chiamare l’HR?

Conflitti e tensioni tra colleghi fanno parte della vita lavorativa, ma diventano critici quando la leadership non basta più. Come capire il momento giusto per trasformarli in un’occasione di crescita?

litigio tra colleghi

I conflitti tra colleghi non sono un incidente raro, ma una costante della vita aziendale. Divergenze di opinioni, incomprensioni, stili di lavoro incompatibili o semplicemente troppo stress: basta poco perché la collaborazione si trasformi in tensione. I dissidi, quando restano entro i confini della dialettica costruttiva, possono perfino essere utili, ma se la tensione degenera è evidente che qualcosa non funziona più.

Secondo una ricerca condotta all’epoca del Covid da MyPerfectResume, l’81% dei lavoratori da remoto aveva dichiarato di avere vissuto almeno un conflitto con colleghi o superiori, e quasi il 40% di loro ha pensato di lasciare l’azienda dopo un episodio particolarmente teso. Le cause più frequenti? Mancanza di trasparenza (18%), scontro di valori (9%) e comportamenti aggressivi dei capi (36%).

Se non è quindi la “convivenza” a far scattare il dissidio tra colleghi, come ovviare? Non è una questione secondaria, perché il conflitto non pesa solo sul morale: si riflette su produttività, engagement e clima. Il CIPD – Managing Conflict in the Modern Workplace Report evidenzia che il 31% dei dipendenti coinvolti in un conflitto ritiene che la propria segnalazione non sia stata presa sul serio, e quasi la metà (48%) ha percepito una gestione “di parte”.
Segno che, anche quando i problemi emergono, le aziende faticano a gestirli in modo imparziale ed efficace.

Quando il manager non fa il suo mestiere

Molti conflitti nascono (o peggiorano)  per assenza di leadership.
Il manager è il primo filtro della relazione, la figura che dovrebbe intercettare i segnali di tensione e favorire il confronto. Spesso però non lo fa, vuoi per mancanza di tempo, obiettivi pressanti o scarsa preparazione relazionale che fanno sì che i problemi si incancreniscano.

Ed è evidente che non si tratti solo di incompetenza emotiva, spesso è un problema di formazione. Le organizzazioni dovrebbero infatti investire sui propri manager non solo come esecutori di obiettivi, ma come attivatori di fiducia e partecipazione.

Empatia e ascolto attivo sono del resto tra le competenze indicate dal Future of Jobs Report 2025 del World Economic Forum come fondamentali per il lavoro di domani. Chi le possiede è in grado di riconoscere emozioni, comprendere contesti e anticipare le tensioni prima che diventino conflitti aperti.

Guarda il video: Leadership come architettura di valore 

Leadership nei conflitti: dati, evidenze ed esempi

La capacità dei manager di gestire i conflitti non è un dettaglio caratteriale, ma una competenza misurabile. Una ricerca condotta da DDI – Development Dimensions International su oltre 70.000 leader globali mostra che solo il 12% dei manager dimostra una forte padronanza nella gestione dei conflitti, mentre quasi la metà fatica a gestire tensioni relazionali in modo efficace. Il risultato? Calo del morale, turnover e perdita di produttività.

Anche la Society for Human Resource Management (SHRM) conferma la tendenza: il 66% dei dipendenti che hanno vissuto episodi di dissidio sul lavoro ritiene che il proprio manager avrebbe potuto prevenirli. Una leadership assente o inefficace, dunque, non solo non risolve i conflitti, ma li amplifica.

La scienza organizzativa fornisce ulteriori prove. Uno studio pubblicato su Frontiers in Psychology ha dimostrato che lo stile con cui un leader affronta i conflitti influisce direttamente sul clima emotivo e sulla motivazione del team. In particolare, un approccio cooperativo basato su negoziazione e ascolto attivo favorisce fiducia e impegno, mentre uno stile competitivo tende ad alimentare ansia e distacco.

Infine, un’analisi del CIPD – Chartered Institute of Personnel and Development rivela che solo il 36% dei lavoratori che hanno vissuto un conflitto in azienda lo considera “completamente risolto”. Ciò significa che nella maggior parte dei casi le tensioni restano sospese, con un impatto negativo sulla fiducia interna e sulla qualità del lavoro.

Questi dati convergono su un punto: la leadership è il vero punto di svolta nella gestione dei conflitti. Le aziende che formano i propri manager non solo su competenze tecniche ma anche su empatia, negoziazione e ascolto attivo riducono drasticamente le escalation interne e migliorano il benessere organizzativo.

 

Esempi di conflitti tra colleghi e come possono essere risolti

Una mail fraintesa, una riunione andata storta, un diverso modo di intendere le priorità: spesso il problema non è la divergenza in sé, ma la mancanza di chiarezza o di fiducia. Ci sono casi in cui due colleghi dello stesso team, con stili opposti, finiscono per lavorare come se fossero avversari, bloccando la collaborazione. Altri in cui un dipendente vive la gestione del proprio responsabile come un’ingiustizia, reagendo con chiusura o passività.

Le situazioni più comuni mostrano uno schema ricorrente: il conflitto nasce da incomprensioni mai chiarite e da ruoli sovrapposti. Quando non si interviene subito, la tensione cresce fino a compromettere il lavoro dell’intero gruppo.

Le aziende che riescono a gestire efficacemente queste situazioni hanno un elemento in comune: non si affidano al caso, ma attivano processi strutturati di mediazione.
Attraverso un dialogo facilitato interno o supportato da figure esterne  le parti vengono aiutate a chiarire il proprio punto di vista e a ridefinire le regole di collaborazione.
Spesso non serve “decidere chi ha ragione”, ma ristabilire un linguaggio condiviso. Stabilire chi comunica cosa, con quali tempi e modalità, è il primo passo per evitare che l’episodio si ripeta.

Quando il conflitto è più profondo, l’HR può ricorrere a percorsi di coaching individuale, formazione sulla comunicazione assertiva o interventi di team building.

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