«Lo smart working contro la denatalità del Paese»

L’avvocato Cafiero: «Ma che non sia solo per le donne; dovrà servire a ridistribuire le responsabilità»

I «peccati» del mercato del lavoro producono il frutto avvelenato della denatalità. E lo smart working può essere uno strumento in grado di invertire questa tendenza e “guarire” il mondo del lavoro. È questo uno dei concetti fondamentali che ruota attorno al libro uscito nei mesi scorsi intitolato Il lavoro che cambia, scritto dall’avvocato Ciro Cafiero, consulente della ministra per le Pari opportunità e la famiglia Elena Bonetti.

Avvocato Cafiero, quali sono questi peccati?

«Certamente la disoccupazione e la precarietà. Una giovane coppia disoccupata e precaria rimanda le scelte, in un mercato del lavoro conflittuale che discrimina le donne e che non rende facile la conciliazione dei tempi di vita e lavoro, di quel work-life balance di cui tanto si parla».

C’è stato un momento in cui si è creduto che gli immigrati potessero ripopolare il nostro Paese…

«Non è più così, sia perché arrivano meno persone di qualche anno fa, sia perché i numeri ci dicono che anche le giovani donne immigrate rientrano ormai nel dato di bassa natalità, di 1.3 figli per famiglia. I dati del 2017, che hanno messo a confronto Italia e Germania, ci dicono esattamente che in assenza di un’integrazione efficace le donne immigrate fanno figli come le italiane. Un altro “peccato”, infatti, è stato quello della mancata integrazione della forza lavoro straniera: gli immigrati sono come una pianta vigorosa piantata su un terreno arido; ben presto anche quella pianta appassirà».

Qual è il ruolo dello smart working in questo contesto?

«Lo smart working è uno degli strumenti in grado di dare un grosso impulso a risolvere uno dei peccati del mondo del lavoro, che è quello della mancanza di work-life balance, sempre se maneggiato con cura. Consente sicuramente una conciliazione dei tempi di vita e lavoro, ma bisogna fare attenzione che non produca – come è successo durante il lockdown – un effetto indiretto, un’eterogenesi dei fini. Le donne in alcuni casi, si sono trovate schiacciate da incombenze doppie: contemporanea cura degli affari familiari e degli affari lavorativi. Il protocollo che è stato firmato il 9 dicembre scorso ha fatto qualche passo avanti. È necessario sbilanciare il welfare anche sui bisogni domestici e territoriali. Occorrono servizi cuciti a misura delle persone. La pandemia ci ha imposto questa attenzione. Tornano centrali i quartieri, i comprensori urbani in un’ottica di comunità del lavoro. Olivetti parlava di “sentinelle del territorio”, Trentin di “città del lavoro”; io suggerisco di parlare di comunità territoriale. Anche se può sembrare paradossale, ha senso fare un passo indietro per farne molti di più in avanti tutti insieme. Le chiavi possono essere welfare ibrido, smart working ibrido, in forma alternata (ufficio/altro luogo) che può significare non solo lavorare da casa, ma anche da luoghi adibiti al coworking ad esempio».

Non crede che il fatto che le donne siano penalizzate nel lavoro sia culturale, e che quindi si debba partire da lì?

«Certamente il problema è culturale: subiamo ancora il retaggio di una cultura patriarcale in cui la donna “resta a casa” e l’uomo “esce di casa” per andare a lavorare; c’è ancora l’idea dell’uomo il portatore di pane (Breadwinner). Eppure, l’articolo 37 della Costituzione va in direzione opposta. Una disposizione che ha visto molti tramonti e poche albe: essa voleva ispirare la figura di una donna in equilibrio tra lavoro e affari familiari. La causa del suo fallimento, tutto sommato, è da ricercarsi in quel retaggio culturale di cui parlavo. Lo stesso dicasi per  molti tentativi di ribaltare la figura del lavoro femminile nella società: tra i primi, quello  di  Anna Kuliscioff, che si fece promotrice di una legge a tutela del lavoro femminile. Molte responsabilità sono da imputare al sistema capitalista/fordista delle prime ore, che ha modificato il nostro Dna con l’idea che le persone valgono tanto quanto sono utili nel sistema produttivo e non per l’universo valoriale di cui sono potatrici. In quest’ottica, l’uomo è utile, la donna è fragile, meno utile perché meno forte fisicamente. Insomma, credo che un insieme di fattori abbia portato alla situazione in cui ci troviamo oggi. Occorre tuttavia sottolineare anche gli esempi positivi. In alcune aziende, è in atto  un processo culturale teso a ribaltare la situazione: alcune hanno cercato di agire sulla genitorialità, sulla parità di sessi, e hanno fatto dei percorsi congiunti con padri e madri perché entrambi capissero la loro interscambiabilità e il loro valore reciproco nell’ottica di squadra».

Quanto c’è di facciata, di politically correct in queste azioni, e quanto di sostanza? Pare che i giovani pongano oggi il work life balance come una condizione per accettare un lavoro. Ma quante aziende sono pronte?

«Diciamo che il pinkwashing è vecchio come il mondo. In molti casi è predominante rispetto alla costruzione di un effettivo armamentario a favore della parità di genere. In altri casi, viceversa, soprattutto nelle realtà aziendali di dimensioni maggiori, sta effettivamente avvenendo un processo di evoluzione, semplicemente perché si è preso atto che il caring al femminile, la leadership gentile davvero possono migliorare la gestione dei contesti produttivi. Durante la pandemia – così come ora con una forma di smartworking alternato – si è osservato che la capacità della donna di saper mantenere attive e coinvolgere tutte le persone, di prestare attenzione a tutti in un momento di grande difficoltà, è stata di fondamentale importanza: si tratta di una capacità vitale perché, viceversa, in altri contesti è accaduto che alcune risorse tipicamente più performanti siano state caricate oltremodo di incombenze lavorative, altre lasciate del tutto prive, come le persone più fragili, i disabili. In alcune aziende come Eni, Tim, Intesa Sanpaolo, Enel, Leonardo, Poste, Generali, Barilla, Mondadori questo processo di trasformazione è stato intrapreso e sta producendo gli effetti sperati. Inoltre, occorre anche ribadire che la Ministra Elena Bonetti è molto determinata in questo senso e sa bene quali sono i risultati possibili alla luce di calcoli precisi; la certificazione per la parità di genere a cui si sta lavorando per le aziende prevede dei criteri KPI che devono riflettere situazioni di parità reale. Gli indici sono in fase di approntamento e potranno in qualche modo dare un’ulteriore spinta a questo processo».

Congedi equilibrati a madri e padri possono aiutare?

«La Ministra Bonetti ha già esteso a 10 giorni in congedi obbligatori di paternità e il Family Act punta ad un’ulteriore estensione a 3 mesi. Al di là del tema puramente biologico, è chiaro che bisogna  lavorare su un equilibrato riparto delle responsabilità genitoriali: così le aziende diventeranno family friendly. Già aziende come Snam sono all’avanguardia su questo terreno».

Oggi, però, sono ancora molte le aziende in cui è apprezzato chi resta in ufficio a lungo, più di quanto dovrebbe, non come in paesi come la Svezia, dove si è ripresi se lo si fa…

«Sì, è vero. In questi Paesi restare troppo a lungo è oltre tutto considerato non performante e non produttivo. Ma è anche vero che in Italia, soprattutto in quelle aziende in cui la leadership è gentile e femminile, le cose vanno diversamente dal consueto: misure come l’obbligo di abbandonare l’ufficio a una certa ora, di non inviare mail dopo una certa ora, già funzionano».

C’è anche da dire, purtroppo, che le donne ai vertici sono ancora troppo poche…

«Anche questo fatto deriva da una concezione del lavoro molto fordista legata ai tempi e agli spazi, all’idea di presenza, anch’essa figlia della fabbrica, dove la presenza è imprescindibile perché la catena produttiva la richiede. Lo smart working potrebbe aiutare a uscire da questa “sovrastruttura” ideologica, sempre che siano entrambe le parti a goderne in maniera paritaria e sempre che non si riduca in un ulteriore strumento di conciliazione dei tempi di vita e lavoro solo per la donna».

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