Il ritorno dei manager over 55: esperienza che fa innovazione
Sempre più aziende riscoprono il valore dei manager senior, capaci di unire competenze tecniche e soft skills maturate in anni di carriera. Per Stefano Bottaro, HR Director di Avio, rappresentano un ponte tra generazioni e una risorsa strategica per la crescita dei giovani talenti

Dimenticate il cliché del manager vicino alla pensione. Oggi gli over 55 tornano protagonisti nelle aziende, portando con sé competenze, leadership e una visione del lavoro costruita in decenni di esperienza. Una risorsa che molte imprese stanno riscoprendo, anche per favorire il passaggio generazionale e rafforzare la cultura organizzativa.
“Non è nostalgia del passato, ma valorizzazione del capitale umano”, spiega Stefano Bottaro, HR Director di Avio, per il quale i manager senior rappresentano un elemento chiave di equilibrio e innovazione, capaci di affiancare i giovani talenti e guidarli verso una crescita più consapevole.
Il ritorno dei manager over 55 è un fenomeno sempre più visibile. Da direttore HR di Avio, come interpreta questa tendenza?
Credo sia una necessità concreta per supportare alcune aree aziendali grazie alle soft skills che i manager over 55 hanno maturato nel corso della loro carriera. Si tratta di un valore fondamentale anche per il passaggio generazionale. Da un lato, oggi l’età pensionabile è più alta, quindi un manager di questa fascia ha davanti ancora diversi anni di attività; dall’altro, in azienda convivono generazioni molto diverse, dai più giovani fino a chi si avvicina alla pensione.
Per questo è importante che, soprattutto nella fase finale della carriera, i manager senior svolgano anche un ruolo di affiancamento con i colleghi più giovani e contribuendo alla loro crescita professionale. In passato, invece, chi perdeva il lavoro dopo i 50 anni aveva pochissime possibilità di ricollocarsi. Oggi la situazione è cambiata: l’esperienza è tornata a essere un valore, e la figura del manager over 50 o over 55 ha riacquistato centralità nel mercato.
La pandemia ha in qualche modo contribuito a rivalutare il valore dell’esperienza?
Sì, senza dubbio. La pandemia ha rappresentato una cesura nel mondo del lavoro. Da quel momento in poi si è affermata una nuova idea di flessibilità, sia da parte delle aziende sia dei dipendenti. Il turnover, che prima era molto basso, è aumentato sensibilmente: molti professionisti hanno cominciato a riconsiderare le proprie priorità e aspettative.
In questo contesto, la presenza di figure esperte è diventata ancora più importante. Persone che hanno attraversato diverse realtà e vissuto più cambiamenti aziendali portano con sé un patrimonio di conoscenze prezioso.
Quindi l’esperienza pluriennale porta anche una visione diversa del lavoro?
Sì, assolutamente. Chi ha visto più aziende e diversi modelli organizzativi sviluppa una visione più ampia e una maggiore capacità di adattamento. Porta in dote competenze trasversali, conoscenze sui processi, sulla gestione del personale e un approccio più consapevole ai cambiamenti. È qualcosa che chi lavora da sempre nella stessa azienda, magari da giovane, difficilmente può avere.
Le nuove politiche HR puntano molto sul mix generazionale. Quali strategie adottate per favorire la collaborazione tra manager senior e giovani talenti?
In un’azienda fortemente tecnica come la nostra, abbiamo professionisti straordinari dal punto di vista ingegneristico, ma che a volte faticano nella gestione dei gruppi. Per questo abbiamo avviato percorsi di formazione dedicati: dal people management al coaching, dal mentoring al public speaking.
I manager senior svolgono un ruolo chiave in questo processo: mettono a disposizione la loro esperienza diretta, offrendo un affiancamento continuo ai colleghi più giovani. È un vero e proprio “training on the job”, che arricchisce entrambi.
C’è ancora un pregiudizio legato all’età nella selezione dei ruoli manageriali?
In parte sì, soprattutto nel middle management. Per esempio, se un ex dirigente si candida per una posizione da quadro, spesso l’azienda teme che possa non accettare il nuovo ruolo o abbandonarlo presto, oppure che non si adatti al livello retributivo inferiore. Si tratta di pregiudizi difficili da superare.
Allo stesso modo, per le posizioni in crescita si tende a preferire profili più giovani, tra i 35 e i 40 anni, considerati “a più alto potenziale”. Tuttavia, per le posizioni di vertice — come direttori di funzione o responsabili di area — questo tipo di resistenza è ormai superato: non ci sono più ostacoli all’assunzione di professionisti over 50 o over 55.
Che consiglio darebbe a un manager over 55 che vuole rimettersi in gioco? E alle aziende?
Il primo passo è essere consapevoli che non troverà mai lo stesso contesto, né la stessa organizzazione o lo stesso business di prima. Anche restando nello stesso settore, ogni azienda ha un proprio core business e una propria cultura. Serve quindi flessibilità e la capacità di adattarsi a un ambiente diverso.
Riguardo le aziende, devono proporre ruoli realmente significativi, in cui il contributo del professionista faccia la differenza. Non si tratta di “tappare un buco”, ma di valorizzare competenze strategiche.



