Aperto o chiuso? Open space sempre più diffuso, ma non piace a tutti

Da tradizionale oil company a leader di mercato nella produzione di energia rinnovabile. Cambia l’azienda, cambia il contratto di riferimento, cambia il modello di relazioni con i sindacati e con il personale: siglato un innovativo protocollo con il sindacato

lavorare in open space

L’open space è davvero il luogo migliore in cui lavorare?

È smart, è nuovo, è il posto dei talenti dell’hi-tech e dei founder delle startup innovative, contrapposto all’ufficio tradizionale, molto più fordista come rappresentazione.

Ma la privacy? La confusione? E gli shhhh che si diffondo per la stanza quando ci sono call in corso?

La certezza è questa: l’open space si diffonde sempre più, ma la sua reale efficacia nel miglioramento dei processi lavorativi è tutta da dimostrare.

Secondo un report dell’International Facility Management Association, circa il 70% degli americani lavora all’interno di open space o di spazi con poche separazioni. Una tendenza che si è rapidamente diffusa anche in Italia. Ma lavorare in uno spazio condiviso ha solo dei vantaggi? Il dibattito è aperto: da una parte un recente studio condotto da due ricercatori dell’Università di Harvard sostiene che gli open space siano nemici della concentrazione e facilitino l’errore (qui un approfondimento); dall’altra, i fautori dell’open space sostengono che solo la condivisione dello spazio fisico consenta realmente la condivisione di idee e obiettivi, la creatività e l’innovazione, a tal punto che di recente colossi come Ibm, Yahoo o Bank of America hanno diminuito drasticamente il tele-lavoro per riportare i propri dipendenti in sede, sostenendo che lavorare fianco a fianco con i colleghi aumenti la produttività.

Lo studio dei ricercatori di Harvard è stato fatto analizzando 150 addetti di aziende in fase di passaggio all’open space, così da poter “misurare” il prima e il dopo. I risultati in breve: meno interazione faccia a faccia e, nonostante l’impostazione open, più interazione mail e con strumenti di messaggistica istantanea. Secondo gli autori della ricerca, l’interazione non è solo calata quantitativamente, ma anche qualitativamente: la loro conclusione è stata per un calo di produttività generato dai posti di lavoro open.

Ma non è uno studio che risolverà la diatriba open space sì, open space no.

Molto semplicemente, ogni realtà ha esigenze diverse e ogni analisi dipende dai parametri che si misurano. Negli spazi aperti ci sono più confusione (si dice, con una battuta, che le cuffie che riducono il rumore siano necessarie tanto quanto il distributore di caffè) e meno privacy, ma la salute dei dipendenti migliora e si lavora anche meglio. A sostenerlo sono i risultati di uno studio condotto da un team di ricercatori della University of Arizona condotto da un team di ricercatori della University of Arizona, pubblicato dalla rivista Occupational & Environmental Medicine, che ha coinvolto  231 addetti, dotati di misuratori di movimento e di stress. Lo studio è complesso e inserito all’interno del grande progetto di ricerca “Wellbuilt for Wellbeing”, voluta da una agenzia federale Usa che gestisce uffici dove lavorano circa 1 milione di dipendenti del governo. I risultati: negli uffici open, con postazioni di lavoro ben progettate, c’è più attività fisica (il 32% in più di movimento) e meno stress. Una buona progettazione di uffici e workstation è dunque un elemento di promozione della salute.

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