«Outplacement: ecco perché è fondamentale per la transizione post pandemia»

Cristiano Pechy, presidente di Aiso, ragiona sul ruolo che la ricollocazione dovrebbe avere all’interno del sistema italiano per affrontare il futuro in modo competitivo.

cristiano pechy

L’outplacement ai tempi della pandemia. Ma non solo. Perché se è vero che la trasformazione che il mondo ha vissuto e sta vivendo a causa del Covid-19 ha reso ancor più evidenti alcuni temi legati al lavoro, è altrettanto vero che già da tempo si sarebbe dovuto riflettere e operare per affrontare tutte le problematiche che il futuro pone.

Cristiano Pechy, Presidente di AISO, Associazione Italiana Società di Outplacement, offre alcuni spunti interessanti e utili sia per le aziende che per il Governo, necessari ad affrontare gli scenari che si stanno configurando, anche in funzione dello sblocco dei licenziamenti.

Presidente Pechy, può fare un quadro della situazione?

«La situazione si è continuamente evoluta nel corso dei mesi. Inserito a marzo del 2020, il blocco dei licenziamenti è stato sempre esteso, per una durata limitata, un po’ alla volta. Attraverso vari step si è arrivati al 30 giugno. Poi, di fatto, alcune società non potranno licenziare fino alla fine dell’anno. Ma un’apertura c’è stata e quindi è corretto chiedersi quale sia la reazione delle aziende. La risposta è che è stata variegata: alcune hanno potuto congelare una situazione critica usufruendo della Cig. All’inizio tutti avevano questa opportunità, anche perché l’impatto della pandemia era stato sentito da tutti i settori e non era chiaro quale sarebbe stato colpito di più. Dopo il terremoto, tuttavia, molte realtà produttive sono tornate a regime, altre hanno anche continuato a crescere. Quindi il blocco dei licenziamenti, che ha mantenuto una struttura onnicomprensiva globale, non è mutato di pari passo con l’evolversi della situazione. Il provvedimento ha fatto del bene nella misura in cui ha impedito che le aziende dismettessero immediatamente avvertendone la necessità; ma, in alcuni casi, il blocco ha anche impedito che certe realtà cogliessero l’opportunità di mutare in modo positivo per aumentare la competitività nei confronti del mercato».

Cosa significa, nei fatti?

«Se io non posso licenziare, difficilmente posso assumere, e non sempre lo strumento della ricollocazione è efficace. Nella storia delle aziende è fondamentale importare nuova linfa e competenze. Faccio degli esempi: un’azienda che ha sempre vissuto di comunicazione tradizionale – come negli aeroporti, nelle stazioni e nelle metro – ha dovuto mutare e intraprendere una comunicazione digitale che necessita di competenze diverse; in casi simili si è posta l’urgenza di cercare nuove figure: non hanno potuto farlo, e questo è stato negativo. In certi casi si è trattato di un’occasione persa per la competitività. Capiamoci: le aziende non hanno voglia di licenziare e una delle prime strade che si cerca di intraprendere è quella della ricollocazione interna. Per raggiungere questo obiettivo sarebbe stato importante fare una mappatura di competenze e necessità e spingere nella direzione di training e formazione per sviluppare le attività richieste. D’altro canto, laddove la dismissione era necessaria, bisognava farlo garantendo un salario minimo alle persone, ma collegandole a un sistema di politiche attive davvero efficace. In sostanza, è mancato questo passaggio».

Qui si inserisce il tema dell’outplacement…

«In Francia e in Spagna è accaduto, oltre che negli Stati Uniti. Si è permesso alle persone in uscita di ricollocarsi. Il “caso Usa” è molto lontano dalle dinamiche europee: lì senz’altro si è assistito a un cataclisma occupazionale; nell’aprile 2020 si sono persi tanti posti di lavoro, che però si sono recuperati nel mese successivo. Ma si tratta di uno stato molto liberale, diverso dal nostro. Gli stati europei, che sono più assistenzialisti, hanno avuto una fluidità minore, ma Francia e Spagna hanno l’outplacement obbligatorio, inserito nel sistema legislativo, per quasi tutte le forme di licenziamento collettivo. Le aziende hanno intrapreso delle metamorfosi e i tassi di ricollocazione sono molto alti, quasi sempre vicini all’80%. Dobbiamo ricordare che l’outplacement permette la transizione di carriera da un settore a un altro, e si rivela fondamentale in un periodo come quello che stiamo vivendo».

Può fare degli esempi?

«Prendiamo il settore degli informatori farmaceutici. A un certo punto, in passato, l’intera organizzazione italiana delle relazioni ospedaliere è mutata e ciò ha comportato un forte esubero; molti hanno dovuto reinventarsi e ci sono riusciti avendo la consapevolezza della capacità di promuovere prodotti di cui erano in possesso. Si sono ricollocati nel settore agroalimentare, enologico, nello sport. Hanno, insomma, capito dove massimizzare la loro esperienza. Una mutazione simile è avvenuta nel passaggio dal settore delle telecomunicazioni all’automotive. Ora: pensiamo alla difficoltà che oggi vive la ristorazione collettiva; perché non inseriamo questo personale in un percorso formativo e di matching per vedere se è necessario nella logistica? Insomma, io credo che una spinta esterna che indirizzi verso opportunità differenti le persone sia fondamentale. È difficile uscire dalla propria sfera di confidenza, è necessario un coach di supporto. Dal decreto Agosto alcune uscite sono state permesse e un certo numero di aziende ha offerto incentivi all’esodo, spesso accompagnati da un servizio di outplacement. Però c’è stato il blocco che, tuttavia, ad esempio, non si è occupato dei tempi determinati».

Una sorta di ipocrisia?

«Da un’analisi fatta con Cerved risulta che siano stati persi un milione e 200/300mila posti di lavoro, di cui si prevede che ne siano recuperati il 50%. È mancata una politica di salvaguardia di queste persone. Abbiamo il reddito di cittadinanza e la disoccupazione, ma è più complesso costruire un sistema di politiche attive che supporti le persone che non hanno un lavoro e chi potenzialmente rischia di perderlo. Certamente l’intera macchina dovrebbe essere oliata: in Francia è stato intrapreso un percorso di digitalizzazione del mondo del lavoro: tutti sono profilati a livello digitale e il sistema centrale permette la proposta di offerte in modo molto efficiente. Così si riducono anche gli eventuali sprechi. Invece da noi accade anche che alcune forme di sostentamento economico disincentivino le persone a ricollocarsi».

Si entra in uno stato di pigrizia, in qualche modo…

«A me piace ricordare un episodio che Marchionne raccontava. Arrivò a Torino ad agosto, quando la Fiat perdeva cinque milioni al giorno e non c’era nessuno in ufficio: “Sono in ferie”, gli venne detto. “Ma in ferie da cosa?”, chiese lui, viste le condizioni in cui si trovava l’azienda. Ecco: io credo che lo Stato stia facendo un investimento importante di supporto alle persone che hanno perso il lavoro, ma dovremmo comportarci come si fa in Francia: il Pole d’Emploi invia alle persone delle offerte di lavoro; se ne vengono rifiutate più di tre si perde il diritto al sussidio. Io comprendo lo sforzo del ministro Orlando, che si è impegnato a potenziare i centri per l’impiego con l’assunzione di 11mila persone: un’azione nobile che richiederà del tempo per essere messa a punto, magari si arriverà al 2024 per vedere un’efficacia concreta. E nel frattempo? Io credo che sarebbe importante farsi aiutare dalle agenzie per il lavoro e dalle società di outplacement. In Francia il Pole d’Emploi ha governance statale e gestisce le situazioni critiche delle aziende più o meno grandi; poi appalta, sulla base di bandi dettati da criteri qualitativi, la ricollocazione e il supporto alle persone al sistema privato. Sarebbe fondamentale farlo anche per quei territori dove c’è scarsità di impresa, in modo da costruire progetti individuali».

Avete avuto interlocuzioni in merito con il Governo?

«Abbiamo cercato di dialogare a più riprese con la Camera. E anche con il ministro Catalfo. C’è interesse da parte delle istituzioni. Poi con il cambio di Governo non abbiamo ancora aperto un’interlocuzione con il ministro Orlando, ma siamo in contatto con le commissioni di Camera e Senato. Abbiamo anche proposto un emendamento che permettesse la creazione di un fondo per promuovere l’outplacement di persone che hanno perso il posto di lavoro in un’azienda in fallimento. Questo perché non tutte le società sono così etiche e non tutte possono permettersi il servizio di outplacement. Ma l’emendamento è stato giudicato inammissibile per gli obiettivi del decreto Sostegni. Io credo si debba trovare la forma per concretizzare l’interesse in legge. Inoltre, la risposta dovrebbe essere nazionale e, in un panorama in cui le Regioni hanno forte autonomia, non è semplice. Ci sono anche segnali positivi. È appena cambiato il contratto di lavoro dei dirigenti del terziario ed è stato istituito un fondo dedicato ad attività di outplacement. Ma bisogna capire che questo strumento non è valido solo per i dirigenti. Ricordo che in Francia il 65% della popolazione è “blue collar”».

Fatto questo ragionamento, cosa vi aspettate per il futuro prossimo?

«Noi non ci aspettiamo un grosso cataclisma. Ma si dovrà arrivare ad uno sblocco dei licenziamenti con un sistema di politiche attive integrato dove anche l’outplacement faccia la sua parte. Se guardiamo a questo periodo con ottimismo dobbiamo saperne cogliere gli aspetti propositivi. L’Italia è un paese di eccellenze, dove si sono fatte operazioni interessanti dal punto di vista fiscale per attrarre persone dall’estero; se mettiamo in ordine il sistema delle politiche di ricollocazione professionale facciamo bingo. È un’occasione unica».

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