Licenziamenti e incapacità del lavoratore, la Consulta cambia le regole: il commento dell’avv. Zappalà
La sentenza 111/2025 della Corte Costituzionale introduce nuove tutele nei licenziamenti dei lavoratori incapaci. A commentare le implicazioni per imprese e HR è l’avvocato Gessica Elisa Zappalà dello studio Fava & Associati

La sentenza n. 111 del 18 luglio 2025 della Corte Costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 6 della legge n. 604/1966 sui licenziamenti individuali. Secondo la Consulta, se al momento della ricezione della lettera di licenziamento o durante i 60 giorni previsti per l’impugnazione il lavoratore si trova in una condizione di incapacità di intendere o di volere, non è obbligato a impugnare entro quel termine. Abbiamo chiesto un commento all’avvocato Gessica Elisa Zappalà, Associate dello studio Fava & Associati.
Cosa dice la sentenza n.111/2025
“Come è noto, con questa recente sentenza della Corte Costituzionale è stato dichiarato parzialmente incostituzionale l’art. 6 L. 604/66, nella parte in cui non prevede una maggiore tutela per il lavoratore che, al momento del licenziamento, versi in condizioni di incapacità di intendere o di volere al punto da non poter comprendere la portata dell’atto ricevuto, né, tantomeno, di decidere tempestivamente il da farsi a propria difesa” spiega l’avvocato Zappalà.
“Prima di questa sentenza, la legge non faceva alcuna eccezione: il termine di 60 giorni per impugnare il licenziamento partiva dalla ricezione dell’atto, anche se il lavoratore non era materialmente in grado di capire o agire. Ora, invece, la Corte Costituzionale cambia le regole escludendo l’obbligo di impugnativa stragiudiziale nei casi di incapacità naturale del dipendente” commenta l’avvocato.
“Si tratta di una novità giurisprudenziale alquanto rilevante sia per i lavoratori sia per le imprese” specifica l’avvocato Zappalà, che sottolinea: “Ai primi viene accordata, infatti, una tutela rafforzata tenuto conto che la condizione in cui versa la persona colpita da incapacità naturale non può essere equiparata a quella del soggetto pienamente capace di intendere e di volere”.
Le imprese, invece, dovranno tenere conto che, nei confronti di tali lavoratori, non opererà il termine breve di decadenza dei 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale, “fermo restando – precisa Zappalà – lo sbarramento finale al termine complessivo pari a 240 giorni, dato dalla somma del termine per la contestazione stragiudiziale (stabilito, per l’appunto, in 60 giorni) e del successivo termine per il deposito del ricorso, anche cautelare, o per la comunicazione della richiesta del tentativo di conciliazione o di arbitrato (fissato in 180 giorni). Ciò in quanto la Consulta non ha, mediante pronuncia additiva, inserito nella norma censurata il differimento della decorrenza del termine di impugnazione stragiudiziale (l’articolo 6, L. 604/66, infatti, lo individua nella data di ricezione della lettera di recesso) al momento in cui il lavoratore torna capace di agire; ciò per bilanciare, da un lato, l’interesse del lavoratore incapace ad accedere agli strumenti di tutela giudiziale e, dall’altro, la certezza dei rapporti giuridici”.
Cosa cambia per gli HR
La sentenza ridefinisce quindi i termini di impugnazione e richiama le imprese, in particolare gli HR, a valutare con attenzione la condizione concreta del lavoratore al momento del recesso. “A nostro modo di vedere – conclude l’avvocato Zappalà – la pronuncia in commento, al di là delle novità sul piano tecnico, è rilevante per i responsabili delle risorse umane anche per un altro aspetto: il livello di sensibilità al fattore umano e attenzione alla documentazione inerente allo stato del lavoratore al momento della comunicazione del recesso datoriale dovrà certamente innalzarsi”.