Smart working: flessibile, non equo

Dai dati riportati dal Report Smart Working – indagine condotta dallo studio Cafiero-Pezzali per la Ministra Elena Bonetti, presentata nel corso dell’ultima edizione di Smart Working Day – emerge, tra le altre cose, la persistenza delle iniquità sul posto di lavoro, anche quando questo diventa virtuale. A essere penalizzate sono ancora una volta le donne: 99 mila hanno abbandonato il proprio impiego nel 2020 per esigenze legate alla famiglia, mentre la scelta dello smart working si dimostra non efficace per rilanciare la leadership. Abbiamo approfondito i risultati del report con l’avv. Paola Pezzali, tra criticità emerse, best practice delle aziende intervistate e proposte al Governo.

Paola Pezzali

L’annus horribilis per la natalità in Italia sarà il 2050, quando il numero delle nascite non sarà sufficiente a colmare le esigenze economiche del Paese. E lo smart working potrebbe essere lo strumento utile ad andare incontro alle esigenze delle famiglie.

Il trend negativo delle nascite non dà segnali di arresto e il ministero della Famiglia e delle Pari Opportunità si sta interrogando su quali politiche mettere in campo per supportare le coppie che hanno o vorranno avere dei figli. Lo studio di giuslavoristi Cafiero & Pezzali Associati, per conto della Ministra Elena Bonetti, ha lavorato a un’indagine in questa direzione, a partire dallo strumento dello smart working, così tanto utilizzato durante la pandemia, per capire cosa è necessario fare per invertire il trend.

«Durante la pandemia si è trattato di emergency working piuttosto che di smart working, ma di certo si è fatto un salto rispetto al passato, sperimentando un nuovo modo di vivere il lavoro, diffuso in altri paesi europei, ma scarsamente noto in Italia, ad eccezione delle grandi aziende», fa sapere Paola Pezzali, avvocata dello studio Cafiero che ha lavorato all’indagine.

Avvocata Pezzali, cosa è successo?

«Si è iniziato a lavorare all’interno del contesto familiare, recuperando da un lato il senso del nucleo familiare stesso, ma vedendo emergere, d’altro canto, una serie di problematiche legate al modo in cui si è strutturato il lavoro durante lo smart working. Si è capito subito che le modalità con cui si svolge l’attività hanno un ruolo fondamentale: il luogo di lavoro, ad esempio, non può essere il salone di casa, dove anche i bambini fanno dad e il coniuge lavora dall’altro lato del tavolo. Situazioni simili in alcuni casi hanno scatenato una serie di conflittualità che sono talvolta sfociate in crisi familiari o addirittura in violenza domestica, che durante la pandemia è aumentata. Quindi ci si è domandati quale tipologia di smart working sia necessario mettere in campo e, per farlo, si è aperto un confronto con le aziende, piccole, medie e grandi, convocate ad un tavolo per lavorare al concetto di smart working immaginato sotto il profilo della diversity e dell’inclusion, ma tenendo conto del fatto che non può essere un contenitore uguale per tutti».

Cosa significa?

«Significa che la “confezione” dello smart working è la stessa, ma il taglio, la manifattura, devono essere calati nelle tipologie delle diverse aziende. E le piccole aziende devono poter usufruire di best practice già messe in campo dalle grandi imprese per adattarle alla propria realtà».

Quali altre segnalazioni avete avuto dalle aziende?

«Innanzitutto occorre far presente che le modalità cambiano anche a seconda del tipo di azienda: quelle che hanno una produzione non strettamente manifatturiera o legata alla fabbrica e alla realtà territoriale non hanno avuto alcun problema; conoscevamo lo smart working ed è stato molto facile utilizzarlo durante la pandemia e anche successivamente. Si sono immaginate di mettere al servizio dei propri dipendenti un’intensa attività formativa anche rivolta al management: il tipo di controllo infatti è diverso, è necessario lavorare in staff e utilizzare un’organizzazione specifica. Inoltre, è emerso che per qualcuno trovarsi lontano dall’ufficio e dai colleghi ha significato sentirsi isolati. Da qui l’idea di avviare dei percorsi di supporto psicologico. Poi, per valorizzare l’engagement femminile, alcune aziende hanno spinto gli uomini ad utilizzare i congedi e recuperare gli spazi di tempo necessari e il proprio ruolo all’interno della famiglia».

Quali altre attività hanno elaborato le aziende?

«Hanno immaginato alcuni strumenti sotto forma di benefit, come ad esempio la figura del factotum, che può fare la spesa o occuparsi di altre incombenze, dando in questo modo al contempo un’occupazione a persone con fragilità che senz’altro hanno maggiore difficoltà a inserirsi in contesti lavorativi».

Questo è ciò che le aziende hanno implementato; cosa chiedono, invece?

«Hanno chiesto innanzitutto di lavorare sugli accordi di secondo livello, perché per la grande impresa è più facile il dialogo a livello aziendale piuttosto che individuale, affiancandoli a best practice interne. Allo stesso tempo hanno evidenziato la necessità di riequilibrare i ruoli, soprattutto in quelle realtà dove sono presenti mansioni che non possono andare in smart working, per loro natura. In questi casi si creano disparità tra blue e white collar. Credo che una delle strade da percorrere possa essere quella della flessibilizzazione dell’orario di lavoro, disarticolando il contratto basato sulle otto ore e lo straordinario, prevedendo, quindi, un tempo lavoro fatto di più ore ma meno giorni. L’obiettivo resta sempre quello di garantire il work life balance a tutte le figure, come nello spirito dello smart working, riconoscendo la diversità delle mansioni e dei ruoli. L’altro problema evidenziato è economico, perché lo smart working costa: occorre fornire la strumentazione (sedute, apparecchi, ecc.), i sistemi di sicurezza, garantire la privacy. Il protocollo uscito a fine novembre ricorda questo punto. Quindi alla piccola e media impresa è necessario fornire ciò che serve per attivare il lavoro agile. Il punto di incontro, ritenuto fondamentale per tutti i soggetti convocati al confronto, è la modifica dell’articolo 51 del Tuir: sotto il cappello del welfare dovrebbero confluire delle voci che abbiano a che fare con la realtà dello smart working per permettere, ad esempio, di allestire delle vere “stanze” di lavoro in casa. Anche perché i luoghi di lavoro del futuro in generale saranno diversi; molte aziende hanno già compreso che non si tornerà più indietro e lo smart working potrà svolgersi anche in co-working o hub cittadini».

Dal vostro osservatorio, percentualmente sono più le aziende in smart working di quelle tornate in presenza?

«Sì, le grandi sono prevalentemente in smart working e sono dotate di una regolamentazione molto strutturata, che comprende una visione del work life balance anche come strumento per ampliare le possibilità di inclusione. Le medie imprese sono già arrivate a fare queste riflessioni; le piccole sono ancora in una condizione culturale diversa, perché il padrone è ancora il titolare e mancano figure manageriali di riferimento: quindi, a queste, è necessario far comprendere che lo smart working può far aumentare la produttività se viene strutturato in un certo modo e che il benessere del lavoratore deve essere fondamentale per l’azienda. Il problema resta sempre quello della sicurezza: bisogna operare lungo la direzione della prevenzione e della collaborazione. Oggi la tecnologia permette di installare degli alert che non sono pensati per il controllo ma per indicare al lavoratore che deve staccare o dare suggerimenti».

Le nascite in Italia continuano a diminuire. E le donne continuano ad essere le più penalizzate…

«Troppe donne sono uscite dal mondo del lavoro con la pandemia e quel tipo di smart working per loro è stata una trappola, perché la cura era tutta su di loro».

Serve incentivare il congedo anche per gli uomini?

«Certamente. Per riequilibrare la situazione è necessario spingere gli uomini a svolgere sempre più un ruolo di presenza all’interno della famiglia. Questo ruolo i giovani lo hanno assunto con felicità e, anzi, lo pretendono. Il problema culturale riguarda le fasce di età più avanzate. I giovani chiedono lo smart working, facendone un termine di contrattazione perché vogliono avere un ruolo di cura e presenza all’interno della famiglia. Le aziende lo stanno capendo».

 

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