Vaccino ai lavoratori, deve essere messo a disposizione ma non imposto

L’avvocato Lorenzo Cairo spiega perché, con l’attuale situazione normativa, si possono intraprendere percorsi alternativi al licenziamento in caso di rifiuto

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La campagna vaccinale sta faticosamente proseguendo e, mentre si reperiscono e si somministrano le dosi, in vari ambiti lavorativi accade che alcune persone li rifiutino. I datori di lavoro si trovano dunque in una situazione di complessa gestione: tenere aperta la propria attività mettendo forse a rischio le persone, oppure procedere nei confronti dei dipendenti che escludono di vaccinarsi.

Lorenzo Cairo, partner dello studio legale Gattai, Minoli e Agostinelli, che riunisce 130 professionisti a livello internazionale e negli anni si è specializzato nell’ambito del diritto del lavoro, fa il punto, spiegando perché – a suo avviso – non sia ad oggi possibile obbligare i lavoratori a vaccinarsi.

Avvocato Cairo, qual è la situazione attuale?

Al di là di qualche voce singola – come quelle di Pietro Ichino e Raffaele Guariniello, che sostengono l’obbligatorietà del vaccino – la maggior parte degli interpreti, me compreso, ritiene che non ci siano strumenti giuridici per considerare il vaccino obbligatorio. L’articolo 2087 del Codice civile, a cui parte della dottrina fa riferimento per sostenere la tesi contraria alla mia e di altri colleghi, prevede che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Tuttavia, dal mio punto di vista, questo articolo, da solo, non può rappresentare una “disposizione di legge”, non può essere considerato una norma sufficiente a raccogliere il rinvio dell’articolo 32 della Costituzione, secondo il quale nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario, se non previsto, appunto, dalla legge. Il concetto è questo: o interviene una norma speciale o sostenere che il vaccino è obbligatorio risulta una forzatura, discutibile, anche dal punto di vista pratico. Significherebbe, di fatto, dare una delega in bianco al datore di lavoro per disporre trattamenti sanitari obbligatori.

Nella pratica cosa accade, ad esempio, nel caso degli operatori sanitari? È già successo che in alcune località i sindaci si siano trovati a dover gestire il rifiuto del vaccino da parte di operatori delle Rsa…

Il Testo unico per la sicurezza prevede che per alcune categorie di lavoratori esposti ad agenti biologici – ad esempio i virus e qualsiasi microorganismo generico che possa provocare infezioni, come si spiega all’articolo 267 del Titolo X del D.Lgs 81/2008 – il datore di lavoro possa sospendere il lavoratore dalla retribuzione, a condizione che sia stata fatta innanzitutto una valutazione del rischio, anche generica, di esposizione al virus, e, inoltre, a patto che il medico competente esprima un parere in cui segnali la necessità/opportunità di adottare il vaccino come misura protettiva. E ancora, l’articolo 279 comma II, prevede che – nel caso in cui la valutazione dei rischi ne abbia ravvisati a causa di contagio con agente biologico – “il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione”. Laddove, per misure di protezione, si intende o la messa a disposizione del vaccino, appunto, o l’allontanamento temporaneo del lavoratore. Magari ad altra sede, dove il rischio non sussista.

Il lavoratore potrebbe impugnare il provvedimento?

Se lo fa e il giudice gli dà ragione riammettendo il lavoratore al suo posto, lo farà con una sentenza in cui motiverà la decisione. Oppure potrà avallare il percorso alternativo intrapreso dal datore di lavoro che ha estromesso il lavoratore dalla struttura in cui si determina il pericolo.

Ma si può sostenere che la persona in questione costituisca un pericolo anche per gli altri?

È una domanda frequente tra i nostri clienti. Il punto è questo: dovrebbe essere dimostrato che chi si vaccina non solo abbatte il pericolo per sé stesso ma anche che non è veicolo di infezione, punto di cui ad oggi non esiste evidenza scientifica; altrimenti non si può utilizzare la sospensione cautelare. La vaccinazione, ad oggi, è indicata come mezzo di protezione individuale. Per questo riteniamo che non sia possibile imporla con lo scopo di proteggere la collettività dei lavoratori, né gli utenti che entrano in contatto con essi. Basta anche riferirsi ai dati disponibili sul sito del Ministero della Salute per osservare che non vi sono, per il momento, evidenze scientifiche che confermino con certezza che oltre a proteggere sé stessi il vaccino impedisca anche la trasmissione del virus agli altri .

Quindi, di fatto, il vaccino può solo essere messo a disposizione?

Esatto. E, come dicevamo all’inizio, la possibilità di mettere a disposizione il vaccino dipende dalla valutazione del rischio e dal parere in tale senso del medico competente.

Tornando all’eventuale rifiuto del lavoratore di usufruire di questa opportunità, cosa accadrebbe?

Come dicevamo, se il rischio è stato ravvisato e il medico competente ha stabilito l’inidoneità, il datore di lavoro può spostare il lavoratore, usare lo smart working, laddove possibile, o – se mancano queste possibilità – può sospenderlo dalla retribuzione. Parte della dottrina ritiene che, in caso di rifiuto di vaccinarsi da parte del lavoratore esposto a rischio di agente biologico, che non sia ricollocabile in altra mansione, invece della sospensione sia possibile il licenziamento. Riteniamo questa soluzione difficilmente sostenibile se applicata immediatamente, come diretta conseguenza del rifiuto di vaccinarsi (oltre che particolarmente aggressiva anche da un punto di vista di gestione HR). In particolare, per poter giustificare il licenziamento, l’inidoneità alla mansione dev’essere permanente. Attualmente, per ciò che riguarda il Covid, un eventuale licenziamento dovrebbe essere collegato all’andamento della pandemia: solo qualora questa dovesse durare ancora per un significativo lasso di tempo (come termine di valutazione può essere preso a riferimento il periodo di comporto), un eventuale licenziamento sarebbe sostenibile.

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