Rêpechage, il trasferimento come leva per tutelare l’occupazione

Nel caso di cessazione di una posizione, il datore di lavoro è obbligato a verificare la possibilità di spostamento all’interno dell’azienda. Una verifica estesa anche a unità produttive diverse da quella in cui il lavoratore è collocato.

La cessazione di una posizione lavorativa, anche a causa dell’emergenza sanitaria, può essere la ragione per il trasferimento di una persona a una diversa unità produttiva, del suo “ripescaggio” per evitare il licenziamento. È in questi casi che si parla di rêpechage, ovvero della possibilità di ricollocare un lavoratore nell’ambito della stessa azienda, sia in questo periodo in cui i licenziamenti sono bloccati, sia nella normalità. Ma – per essere legittimo – il provvedimento deve essere preso seguendo certe condizioni.

L’articolo 2103 del Codice civile è lo strumento che stabilisce le situazioni e i contesti che permettono il rêpechage. Se la ricollocazione avviene all’interno dell’impresa non si configura neanche la fattispecie del trasferimento, che si presenta invece – va da sé – quando lo spostamento del lavoratore è diretto verso una località geografica differente. Si considera trasferimento, però, anche l’allocazione in una diversa unità produttiva, intesa come entità tecnicamente a sé stante all’interno dell’azienda.

Tuttavia, l’articolo 2103 è molto chiaro su un punto, ovvero rispetto al fatto che la decisione – e quindi il trasferimento – non possano avvenire in modo unilaterale, per sola volontà del datore di lavoro. Deve essere opportunamente dimostrato che non sussistono le condizioni per cui il lavoratore possa proseguire l’attività nella sede di origine e che il rêpechage, dunque, rappresenta l’unica alternativa alla cessazione del rapporto di lavoro. Allo stesso modo, anche la giurisprudenza più recente conferma che le cause di licenziamento possono intendersi “oggettive” solo qualora ci sia impossibilità di ricorrere al rêpechage.

Tra le possibilità da verificare – sempre sottoposte all’onere della prova da parte del datore di lavoro – vi è anche quella di ricollocare il dipendente in posizioni con mansioni inferiori a quelle avute fino a quel momento, come si evince da una sentenza della cassazione (la 1802 del 27 gennaio 2020), sempre se vi è disponibilità da parte dell’interessato a svolgere attività di minor

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