Rientro al lavoro dopo le vacanze: quali impatti su produttività e salute mentale?

Il rientro al lavoro dopo le vacanze non è solo una ripartenza pratica: settembre segna un passaggio critico, tra stress e calo di motivazione. Una survey di Unobravo e Dynata ne fotografa gli effetti su produttività e benessere mentale

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Rientrare al lavoro dopo le vacanze di agosto non è mai semplice: il cosiddetto stress da rientro colpisce molti lavoratori italiani, che vivono settembre non solo come il ritorno alla routine, ma come una vera fase di transizione psicologica ed emotiva. Se da un lato il rientro rappresenta una ripartenza carica di aspettative, dall’altro può generare ansia, calo di motivazione e impatti concreti sulla produttività. In questo contesto, 

il benessere lavorativo diventa un fattore chiave, capace di influenzare non solo la performance individuale ma anche l’engagement e il clima organizzativo. A confermarlo è una survey condotta da Unobravo, servizio di psicologia online e società benefit, in collaborazione con Dynata, che ha analizzato i vissuti legati al rientro al lavoro di un campione rappresentativo di italiani tra i 20 e i 55 anni.

Stress da rientro: l’impatto del ritorno al lavoro sui lavoratori

Un quarto del campione dell’indagine ha dichiarato di vivere il rientro come una ripresa da dove si era lasciato, ma accompagnata da una certa pressione. Ancora più diffusa è la percezione di dover “tenere il passo”: il 66% degli intervistati afferma di sentirsi inadeguato rispetto agli altri, come se tutti stessero facendo meglio. 

Da qui si comprende  quanto la performatività sociale influenzi il vissuto quotidiano, una tendenza al confronto che si accentua tra i più giovani: nella fascia 20-24 anni, quasi un intervistato su tre (30%) vive settembre con pressione legata alla necessità di “riattivarsi”, mentre ben l’85% si sente in svantaggio rispetto agli altri, schiacciato dal peso delle aspettative e dalla continua comparazione con ciò che vede intorno a sé.

Il 59% ammette di sentirsi occasionalmente intrappolato in un ciclo di aspettative, performance e pressione, mentre il 35% lo è spesso. 

La complessità del rientro si gioca anche sul piano familiare, dove le responsabilità quotidiane spesso si sommano a quelle professionali. I padri dichiarano di sentire più delle madri il peso delle pressioni  familiari (32% contro 28%) e del sovraccarico genitoriale (come la gestione scolastica e il carico emotivo), con un dato del 41% contro il 30%. Al contrario, le madri risultano maggiormente esposte a burnout o pressione lavorativa rispetto ai padri (36% contro 22%).

Burnout lavorativo: i pericoli oltre il rientro di settembre

Secondo i dati raccolti da Unobravo e Dynata, il rientro al lavoro di settembre non è soltanto una questione organizzativa: si tratta infatti di un momento ad alta intensità emotiva e psicologica, con conseguenze concrete su produttività, coinvolgimento dei lavoratori e clima aziendale.

A questi si aggiunge il  MINDex**, il Barometro sul Benessere Mentale degli Italiani, lanciato da Unobravo  in occasione del World Mental Health Awareness Month a maggio, che evidenzia come il 61% dei lavoratori dichiara di aver sperimentato, almeno occasionalmente, stress o burnout sul lavoro, e il 18% ha lasciato un impiego per questo motivo. 

La fascia d’età 30-39 anni è quella più colpita dalle difficoltà legate alla salute mentale sul lavoro: il 65% ha lasciato o preso in considerazione l’idea di lasciare il proprio lavoro a causa di stress, burnout o mancanza di supporto psicologico. Anche le generazioni più giovani (18-29 anni) riportano difficoltà significative e seguono con il 64%.

I lavoratori tra i 40 e i 50 anni sono meno inclini rispetto alla media a dichiarare di aver vissuto situazioni di stress o burnout (o ad ammetterlo): il dato in questa fascia si ferma al 56%. A essere più propense a lasciare un lavoro per motivi legati al fattore stress sono le donne: il 22% del campione femminile dichiara di aver lasciato il proprio impiego per queste ragioni contro il 14% di quello maschile. I lavoratori da remoto sono quelli che, più di tutti, hanno abbandonato un impiego per ragioni legate allo stress o alla salute mentale, con una percentuale del 28%.

Dalla ricerca, emerge anche  che 1 lavoratore su 3 tende a trattenere il disagio, temendo di apparire debole o poco professionale (32%); il 12% confessa di sentirsi costretto a “indossare una maschera”, ogni giorno, per andare avanti sul lavoro.

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Il benessere sul lavoro come vantaggio competitivo oltre il rientro

Francesco Foffa, Head of Sales, Welfare & Strategic Partnerships di Unobravo, afferma: “I dati mostrano come il rientro a settembre sia un momento particolarmente delicato per molte persone. Le aziende non possono più ignorare l’importanza di una cultura del benessere a 360°, anche sul lavoro: serve una risposta strutturata.  È proprio qui che ciascuna realtà può fare la differenza, promuovendo ambienti di lavoro che sostengono il benessere psicologico.”

Sempre secondo il  MINDex**, il 42% dei lavoratori italiani dichiara che la propria azienda non offre alcun benefit specifico a supporto della salute mentale. 

La disomogeneità è marcata anche per genere: il 50% delle donne afferma che la propria azienda non offre alcun supporto, contro il 33% degli uomini; solo il 14% delle lavoratrici ha accesso a benefit terapeutici, contro il 25% degli uomini. Chi lavora prevalentemente in presenza risulta ancora più svantaggiato: il 48% non riceve alcun benefit per la salute mentale, mentre tra chi lavora in modalità ibrida si registrano maggiori accessi sia a lavoro flessibile (52%), sia a workshop per la gestione dello stress (16%).

Chi usufruisce dei benefit aziendali dedicati al benessere psicologico ne riconosce il valore e li utilizza con continuità. Quasi il 70% dei lavoratori afferma che si sentirebbe a proprio agio a partecipare a sessioni di supporto psicologico in azienda; il 65% li considera strumenti preziosi e oltre la metà (55%) li ha già sperimentati. Il dato cresce tra i più giovani (18-29 anni), dove l’adesione raggiunge il 69%. Non solo: il 59% dei lavoratori dichiara che continuerebbe a usufruire del supporto anche una volta terminato quello aziendale, e il 56% afferma che è probabile che lo farà. Tra i più giovani questa propensione è ancora più marcata, con un 66% che si dice intenzionato a proseguire.

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