A tu per tu con le Top HR Women: Nadia Bertaggia

«Ancora tanta strada da fare sul fronte della discriminazione di genere; l’Italia è indietro». Nadia Bertaggia, HR director and organization Italy per Sodexo, riflette sulla figura dell’HR: «È un driver per l’azienda».

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«La figura dell’HR deve essere non solo cruciale, ma un driver per l’azienda e per il business». A sostenerlo è Nadia Bertaggia, HR director and organization Italy and HR VP south Europe per Sodexo. Una formazione conseguita in Gran Bretagna, tra studi di psicologia del lavoro, economia e tecnologia, seguita dall’esperienza in Olivetti, ha dato il via alla carriera lavorativa che l’ha portata, oggi, dopo altre tappe, all’approdo in Sodexo.

Qual è stato lo stimolo alla sua carriera?

«Il mio grande interesse verso la comprensione dei comportamenti umani deriva dal disagio che avvertivo nel contesto sociale in cui mi trovavo. Sono nata a Padova, in Veneto, regione caratterizzata da contraddizioni religiose, in anni altrettanto difficili, da un punto di vista anche politico: era la fine degli anni ’70, quando frequentavo la scuola superiore. Era un contesto in cui non mi identificavo. Non capivo perché essere poveri faceva la differenza, e io ero povera; non capivo perché essere donna facesse una differenza, e io ero donna; non capivo perché le porte non si aprissero a chi aveva un ottimo profitto scolastico, ma non aveva supporti e appoggi. Qualcosa nel mio Dna mi spingeva con forza a voler capire perché le persone si comportavano in quel modo, su quali basi si fondava una discriminazione così netta.

Le difficoltà che ho vissuto in quegli anni mi hanno dato una forte determinazione.

Dopo il diploma di maturità ho deciso di andare in Gran Bretagna e studiare alla Tavistock clinic, lasciando perdere l’iscrizione a Ca’ Foscari in Economia che avevo già fatto. Mi interessava di più rispondere al disagio che avvertivo e capire perché le donne potessero fare certe cose e non altre, perché dovessero vestirsi in un certo modo: io al contrario vedevo le persone senza un’etichetta di genere, ed è così anche oggi. Il percorso alla Tavistock prevedeva un’autoanalisi (praticantato) di otto anni dopo la laurea; ho capito che quella strada non era fatta per me, troppo lunga senza redditi, non potevo permettermelo. Mi sono così orientata verso la laurea in psicologia del lavoro: un corso serale di quattro anni, seguito da borsa di studio per un master di due anni. Poi è arrivata la mia prima grande svolta». 

Quale?

«Se fossi rimasta sul fronte clinico, accettando la borsa di studio dopo la prima laurea in America anziché a Londra, mi si sarebbe prospettato di lavorare con bambini con disturbi mentali; ho allora capito che avevo una forte sensibilità di fronte alla sofferenza umana e che forse sarebbe stato meglio sviluppare il mio percorso lavorativo in un’altra direzione. Insieme alla psicologia del lavoro mi sono dedicata allo studio dell’economia alla facoltà di Ingegneria, all’Imperial College, approfondendo l’impatto dell’information technology e occupandomi del cambiamento organizzativo: l’azienda mi permetteva quel distacco che gli studi clinici non mi avrebbero permesso. A quel punto è, però, arrivata l’offerta da Olivetti».

Di cosa si trattava?

«Era un’offerta al centro di psicologia occupazionale in quel mondo straordinario che era Olivetti: impossibile dire di no. Col senno di poi non so se la Gran Bretagna mi avrebbe dato altre soddisfazioni, ma l’offerta di Olivetti era da accettare. In quel centro, all’interno della direzione risorse umane, ho lavorato ai progetti più interessanti e più motivanti che una persona alla mia età potesse seguire: mi avevano dato totale libertà. Ho lavorato molto sui nuovi laureati e sulla loro motivazione per comprendere – e anche contrastare – le ragioni dell’abbandono, perché in Olivetti avevamo un problema di retention. Certamente Ivrea, che era comunque un centro lavorativamente internazionale, era una piccola città e molti decidevano di andarsene in fretta. Inoltre, arrivavano molti ingegneri da Padova che poi volevano rientrare in Veneto, perché culturalmente molto legati alla terra e alla famiglia: Olivetti era un passaporto per fare qualsiasi cosa, dopo. Io, in quel contesto, avevo il compito di comprendere le ragioni dell’abbandono e di risolvere la situazione. Da allora sono sempre rimasta nella direzione delle risorse umane».

Come mai, a suo avviso?

«Perché mi sento a mio agio, perché mi piace ascoltare le persone, perché mi piace anche risolvere cose difficili che riguardano le persone. Per farlo bisogna avere molto rispetto, entrare nel loro pathos, capire le loro difficoltà e aiutarle – ovviamente aziendalmente parlando – nello sviluppo professionale».

Una persona come lei, con una preparazione profonda anche dal punto di vista psicologico, oltre che dotata di una particolare sensibilità, è senz’altro un valore aggiunto per un’azienda.

«Credo che la difficoltà stia nel conflitto che talvolta può crearsi tra ciò che la persona è o vorrebbe fare e gli interessi dell’azienda: a volte non collimano. E le persone non si sentono ingaggiate. Accade anche che il management sia a volte miope, dipende molto dal settore. Ad esempio, nel caso di una risorsa di alto livello intellettuale l’investimento da parte dell’azienda è quasi obbligato. In altri casi, è molto più difficile investire in una certa risorsa se non si capisce quale sia il vero beneficio, perché magari non è immediato: questo accade soprattutto in contesti in cui il management non è illuminato, come invece era in Olivetti, dove tutti i manager lo erano».

Cosa intende dire, cosa manca?

«Non intendo offendere nessuno e non si tratta di situazioni generalizzate, ma spesso sento parole e vedo pochi fatti».

Accade anche sul tema che riguarda le donne…

«Sì, si fanno molte cose di facciata.  Credo che Sodexo sia una delle aziende più serie in assoluto dal punto di vista dell’approccio e delle azioni reali».

Può fare degli esempi?

«In Sodexo, ad esempio, valutiamo le situazioni sempre a partire da studi scientifici. Per ciò che riguarda le donne abbiamo capito che a livello di comitati direttivi, nell’approccio alla diversity, se abbiamo dei gruppi di 10 membri l’ideale è averli composti tendenzialmente in un rapporto tra 4 e 6, quattro donne e sei uomini, o sei donne e quattro uomini. Funzionano meglio e i risultati economici sono migliori. A partire dallo studio scientifico, fatto su un campione importante, seguono i fatti e ai manager arriva l’input preciso di scegliere donne manager, a parità di abilità e competenze, di fronte a uomini manager. E – attenzione – non si tratta pertanto di una quota rosa».

Per lei non sono essenziali le quote rosa o un linguaggio che codifichi i ruoli al femminile?

«Io credo che la nostra vera possibilità di riscatto sia la competenza; io voglio una donna in un posto perché è capace non perché è donna».

Solo che alle donne spesso è interdetta la possibilità di mostrare le proprie competenze…

«Certo. E qui torniamo a ragionare su quanta strada le donne hanno fatto fino ad ora, e anche al motivo per cui io me ne sono andata dall’Italia. Non è vero che adesso siamo a buon punto; abbiamo fatto tantissimo lavoro, ma ancora siamo indietro e c’è ancora tanta strada da fare. Parliamo di centinaia di anni di cultura radicata. Prima descrivevo Olivetti come un’azienda estremamente lungimirante per ciò che riguarda le risorse umane e lo ribadisco. Ma certamente non ho avuto una carriera veloce tanto quanto alcuni brillantissimi uomini. La Bellisario ha sconvolto tutto l’assetto. Ed è stata l’unica. Ma guarda caso non era nelle risorse umane; ha preso in mano un pezzo di business e ha dimostrato cosa poteva fare una donna. Oggi alcune funzioni sono ancora penalizzate. Nelle operation si hanno più chance però bisogna essere come la Bellisario: avere coraggio da vendere, fermezza. Nelle risorse umane l’uomo deve circolare per far carriera ma non è il punto di arrivo; per la donna è considerata una funzione dove essa si trova più a suo agio».

Perché?

«Si pensa che sia più sensibile, più malleabile. Ma voglio essere chiara: io non ce l’ho con l’uomo tout court, ma occorre ribadire che chi ha il potere, lo vuole detenere; e l’uomo ha ancora il potere. Se una donna vuole più spazio deve ancora ‘diventare’ come un uomo in alcuni casi, lasciando da parte una serie di valori. Ecco perché penso che ancora in Italia le porte non siano aperte allo stesso modo in azienda. Ecco perché i direttori delle risorse umane sono importanti in questa fase, ancora di più».

In che senso?

«Credo che debbano fare una scelta. Questo lavoro può essere fatto bene e può essere cruciale se si pensa che possa lentamente influenzare positivamente il futuro di donne e uomini. Il direttore delle risorse umane può farlo se non svolge questo ruolo per il potere, ma per attitudine, perché ha passione verso le persone e l’ambizione e il desiderio di fare bene. In questo senso credo che si tratti di una funzione che può essere driver di cambiamento».

Prima diceva che le donne stanno spesso in questo ruolo perché sembrano più adatte a ricoprirlo. Ma potrebbe essere che per questa ragione sono interdette ad altri ruoli…

«Io credo che sia vero che le donne sono più sensibili, ma soprattutto hanno visioni più ampie e sono in grado di ragionare su più livelli.  Ma sono ancora relegate a certi ruoli perché fanno paura. Può accadere ancora anche in Sodexo che in cucina le donne siano “pensate” dai colleghi solo come brave pasticcere, in genere perché hanno le mani più piccole, e non come chef a capo di cucine complesse. Ma non è così nella realtà, e quando riescono ad arrivare dimostrano di essere bravissime e di avere dovuto faticare molto per dimostrarlo. In Sodexo ci impegniamo molto per sostenere i talenti femminili in questo ambito. C’è da dire che poi le situazioni possono cambiare molto da paese a paese. Tra la Gran Bretagna e l’Italia c’è un abisso. In Italia siamo più attenti al tema della diversity nel caso dei disabili».

Perché, a suo avviso?

«È un atteggiamento che denota molta umanità, ma credo anche che sia così perché queste persone fanno meno paura delle donne. Gli uomini non le vedono come una minaccia. Nel settore dell’IT, però, è diverso perché è per sua natura un settore che ‘deve’ guardare avanti più di altri».

Se dovesse consigliare a un giovane di intraprendere questa carriera, che studi consiglierebbe di fare, dopo la sua esperienza? Spesso gli HR sono figure con formazione molto tecnica…

«Non ho pregiudizi verso gli ingegneri. Ma credo che si debba senz’altro avere una grande attitudine verso le persone, capacità empatica. Riguardo alla formazione, penso che un laureato in materie umanistiche possa funzionare, ma solo se ha anche conoscenze di stampo economico. L’HR deve saper tenere in equilibrio le attitudini delle persone con i risultati dell’azienda; deve conoscere il conto economico e sapere come funziona. Dopodiché non possiamo bluffare; non possiamo far finta di occuparci di persone e poi non lottare per quello che dobbiamo raggiungere, pur mantenendo l’occhio fermo sui risultati che l’azienda deve sempre conseguire. Infine, si deve amare la conoscenza, mantenere la curiosità verso le persone e le situazioni. Bisogna avere rispetto e umiltà, non essere presuntuosi, come spesso gli uomini tendono a essere; bisogna ascoltare, tutti, e usare il timbro e le modalità adeguate per ogni persona con cui ci si interfaccia, perché altrimenti non ci sarà mai dialogo. Infine, se parliamo di talent management dobbiamo sapere cos’è un talento».

E che cos’è?

«Per me è chi ha voglia di mettersi in gioco offrendo tutto quello che può. Di una persona non misuro il quoziente intellettivo ma semmai l’intelligenza emotiva. Ricordiamoci che in azienda non si ha bisogno di geni, ma di persone che vanno nella stessa direzione, che hanno capito la cultura del contesto in cui si trovano e che collaborano: i solisti non servono in azienda. I capaci sì».

 

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