Best workplaces, cresce il numero delle società italiane nella classifica di Great place to work

Il ceo Alessandro Zollo ragiona sulla necessità di evoluzione della classe manageriale, parlando di post Covid, smart working e di come costruire rapporti di fiducia tra collaboratori e capi

Alessandro-zollo

Podio pressoché invariato anche quest’anno nella classifica elaborata da Great place to work, che censisce le aziende in cui si lavora meglio, quelle caratterizzate da un clima ottimale. Ai primi posti AmEx (nella categoria dai 500 dipendenti in su), Cisco Systems Italy (classe da 150 a 499 collaboratori), Bending Spoons (da 50 a 149) e Cadence Design Systems (sotto i 50 dipendenti), aziende che offrono benefit, coinvolgono i collaboratori, li ascoltano. Insomma, “chi lavora meglio continua a ricevere un grande plauso da parte dei propri dipendenti”, sottolinea Alessandro Zollo, Ceo di Great place to work. “I migliori restano”, ma non mancano le novità, dal momento che in classifica “cresce il numero delle società italiane”.

Una buona notizia…

Abbiamo iniziato con la classifica nel 2001 e allora c’erano solo 35 aziende. Le italiane arrivavano a fatica a cinque, un settimo. Oggi un terzo della classifica è italiano: nel ranking delle grandi imprese (500+ collaboratori), storicamente avara con le organizzazioni nostrane, troviamo ad esempio Gucci ed Elettronica… Questi dati, seppur in miglioramento, raccontano in parte l’arretratezza manageriale italiana ma, al contempo, segnalano che la cultura del management pian piano sta cambiando e che anche i collaboratori se ne accorgono. Noi non certifichiamo i processi, intervistiamo i dipendenti e non gli Hr.

Come funziona il vostro modello?

La maggior parte del nostro modello di analisi si basa sulle opinioni dei collaboratori; si misura la fiducia che le persone hanno nei propri superiori, nei colleghi e nell’organizzazione in generale, ma la parte più ingente dello studio guarda al rapporto dipendente-capo. Il clima del resto non lo fanno solo i C-level, ma i singoli manager. Diciamo che due terzi delle nostre valutazioni sono fatti sulle persone, un terzo sulle politiche adottate.

Una modalità che conferisce obiettività all’analisi…

È evidente che le domande che vengono rivolte sono di tipo percettivo. Ma sono trent’anni che procediamo in questo modo, siamo arrivati a cinque milioni di persone ogni anno nel mondo: il metodo è affinato.

Cosa è successo nel periodo di lockdown?

Siamo rimasti stupiti dai risultati di una survey che abbiamo lanciato tra fine febbraio e fine aprile. Ci aspettavamo che il dato più significativo fosse la paura e che questa incidesse negativamente sulla percezione delle persone. Invece ciò che è emerso con forza è stata la grande scoperta dello smart working. Il fatto che non sia emersa l’angoscia come elemento preponderante rivela che le organizzazioni hanno fatto cose pazzesche sul fronte della comunicazione. Insomma, quelle che già adottavano il lavoro flessibile, hanno girato una chiave e sono partite. E questo è accaduto anche nelle organizzazioni ben strutturate in cui le persone erano in Cig, ma non hanno perso il senso di appartenenza. Evidentemente la comunicazione non è mai mancata, prima e durante il lockdown. Occorre ricordare che le aziende da noi analizzate non costituiscono la media nazionale, ma semmai la punta dell’iceberg. Ma stanno trasmettendo un modo di lavorare diverso, e questo è positivo: possono svolgere il ruolo di esempio, di traino.

Cosa accadrà allo smart working?

È un processo non più reversibile: in Italia si è puntato sul lavoro agile, lo si è fatto diventare legge, e non sono tante le nazioni che hanno compiuto questo passo, anche nel settore pubblico. Insomma, nessun Hr, anche il più tradizionalista, potrà pensare di tornare indietro: sarebbe un provvedimento difficile da far passare. Ricordiamo che quello che abbiamo fatto in questi mesi non era smart working, ma lavoro da casa. Lo smart working, nella sua accezione reale, prevede che si lavori nel luogo che si ritiene più idoneo in un dato momento. Le faccio un esempio: il mio luogo ideale è il treno Milano-Roma! Sono ore per me particolarmente produttive. I cambiamenti saranno interessanti: almeno uno e due giorni alla settimana sarà fattibile realizzarlo. Non ci sarà bisogno di grandi uffici. Lo dicono anche i più noti designer: i locali verranno rimodulati. Già oggi gli uffici più belli sono quelli che replicano le comodità di casa. E se i dipendenti presenti contemporaneamente al lavoro diminuiranno da 100 a 60, per ipotesi, i metri quadri a disposizione verranno ripensati per fare spazio alla condivisione.  Teniamo presente che il numero di persone a lavorare da remoto è stato elevatissimo: si è passati dalle 570 mila persone degli inizi di febbraio agli otto, nove milioni di adesso, pari a un terzo della forza lavoro nazionale. Non è un numero banale: è una rivoluzione.

Cosa immagina che accadrà sul fronte degli orari di lavoro?

Oggi l’orario è scritto solo su contratti. Nel mondo dei servizi questa logica che non esiste più. Anche nel mondo della produzione evoluta. Ricordo già otto anni fa in Tetrapak gli operai che costruivano macchine si organizzavano al loro interno per garantire la consegna.

Cambierà qualcosa rispetto alla fiducia nelle persone?

Bisognerà capire come fidarsi e come settare gli obiettivi, cose che il manager medio non è in grado di fare perché preferisce impartire ordini e non assegnare problemi da risolvere. Questa è l’impronta da cui veniamo. Invece bisogna fare il salto. Il messaggio deve essere: “Oggi abbiamo questo problema da risolvere e ti do questi strumenti per farlo; hai un certo tempo, ma se incontri problemi fatti aiutare o vieni da me”. In questo caso la valutazione può essere sulla capacità di cimentarsi con la sfida. Il manager, se lo è diventato per merito, deve essere in grado di muoversi in questo modo.

Quindi c’è un problema di classe manageriale…

Troppo spesso vengono scelte per fare i manager persone che non lo meritano, perché non hanno caratteristiche necessarie. In Italia spesso si ragiona così: ho un persona che vende molto, lo metto a fare direttore commerciale. Ma non è detto che sia in grado di farlo; è un mestiere diverso da quello del vendere. In Italia però quasi sempre accade così. Marchionne non aveva grande esperienza sul settore automobilistico, ma qualcosa mi pare abbia fatto sul fronte manageriale… Insomma, si deve scegliere sulla base delle capacità delle persone, che devono essere in grado di trasmettere leadership e fiducia nei propri dipendenti, per fare in modo che diano il meglio di se’.

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