Transizione di genere e lavoro: cosa accade in azienda?
Cosa accade se un dipendente cambia sesso? È legittimo il licenziamento? Come si gestiscono concretamente spazi comuni come bagni e spogliatoi? Quali tutele prevede la legge per garantire il rispetto dell’identità di genere sul luogo di lavoro?

Partiamo subito con una premessa legale: in Italia, il licenziamento di una persona transgender in ragione della sua identità di genere è considerato nullo e discriminatorio. L’articolo 15 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300/1970) vieta infatti qualsiasi licenziamento motivato da discriminazioni basate su sesso, orientamento sessuale o convinzioni personali. Questo divieto è rafforzato dal Decreto Legislativo 216/2003, che recepisce la direttiva europea 2000/78/CE, estendendo la tutela anche all’identità di genere. In caso di licenziamento discriminatorio, il lavoratore ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda.
Se dunque la tutela del posto di lavoro dovrebbe essere scontata, un dipendente o una dipendente che decide di cambiare sesso, rappresenta una situazione delicata da gestire, anche, e soprattutto, dal punto di vista pratico, in particolar modo nel periodo di transizione da un sesso all’altro.
“In una delle fabbriche che seguo – racconta l’HR di un’importante multinazionale nel settore degli impianti elettrici – un nostro operaio ha iniziato la transizione sessuale per diventare donna senza renderlo noto. Appena iniziate le procedure, la persona ha incominciato a usare lo spogliatoio femminile per cambiarsi, invece di quello maschile, generando un po’ di scompiglio tra le altre dipendenti. La discriminante che abbiamo utilizzato per redimere la questione è stato il dato anagrafico: finché il dipendente aveva all’anagrafe un nome maschile, gli abbiamo chiesto di usare lo spogliatoio maschile. Più semplice invece è stata la gestione dei bagni aziendali: accanto ai bagni maschili e femminili previsti dalla legge – il Decreto Legislativo 81/2008, prevede che nei luoghi di lavoro siano disponibili servizi igienici e spogliatoi separati per uomini e donne -, abbiamo introdotto anche i bagni gender-neutral”.
Il coming out lavorativo non è sempre facile
Un’indagine condotta dall’associazione ACET (Associazione per la Cultura e l’Etica Transgenere) ha rilevato che, sebbene le persone transgender con qualifiche professionali o ruoli difficilmente sostituibili affrontino meno rischi di licenziamento, coloro con contratti a tempo determinato o in posizioni meno prestigiose sono più vulnerabili. Il 29% degli intervistati ha riferito di aver subito commenti offensivi, mentre il 18% si è sentito escluso dal lavoro.
Non solo: secondo un rapporto dell’Istat, sono 8 su 10 i transgender che subiscono episodi di micro violenza – frasi denigratorie, insulti sottili e via dicendo – sul posto di lavoro; il 50% degli intervistati ha dichiarato di aver vissuto almeno un evento di discriminazione nella ricerca di lavoro per motivi legati all’identità di genere, e il 46,4% ha scelto di non partecipare a un colloquio a causa dei pregiudizi che ne avrebbero condizionato negativamente l’esito. E ancora, il 40,6% con un lavoro dipendente dice di essere stato escluso o penalizzato, mentre 23% parla di aggressioni violente.
Il caso di Pontedera: una vicenda emblematica
Nel 2024, una giovane donna transgender di Pontedera, in provincia di Pisa, ha denunciato di essere stata licenziata dopo aver comunicato all’azienda la sua intenzione di intraprendere un percorso di transizione di genere. Secondo quanto riportato, la comunicazione è avvenuta durante una riunione con i colleghi, e poco dopo è iniziato il processo che ha portato al suo licenziamento. L’azienda ha giustificato il licenziamento con motivazioni legate alla ‘scarsa produttività’ e alla soppressione della mansione per questioni di budget, ma la tempistica ha sollevato dubbi sulla reale causa del provvedimento.
Il caso è stato seguito dallo sportello Voice di Pontedera, che si occupa di supportare le vittime di discriminazione e al momento in cui scriviamo il Tribunale di Pisa si è espresso in favore dell’azienda, sentenziando che non è possibile dimostrare la discriminazione alla base del licenziamento: spetterà ora alla corte d’appello di Firenze pronunciarsi.
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Le tutele legali
Oltre all’articolo 15 dello Statuto dei Lavoratori e al Decreto Legislativo 216/2003, va ricordato che anche la Costituzione Italiana, all’articolo 3, sancisce il principio di uguaglianza e vieta ogni forma di discriminazione basata su condizioni personali e sociali.
Sebbene non esiste una legge specifica che menziona l’identità di genere, la giurisprudenza italiana ha però riconosciuto il diritto alla rettifica dei dati anagrafici anche in assenza di interventi chirurgici, come stabilito dalla legge 164/1982 e confermato da diverse sentenze.
Inoltre, la legge 5 novembre 2021, n. 162, ha introdotto il sistema di certificazione della parità di genere, incentivando le imprese ad adottare politiche inclusive e a promuovere la diversità nei luoghi di lavoro.
“È importante notare – commenta l’avvocato Sergio Alberto Codella, giuslavorista e partner di Orsingher Ortu Avvocati Associati – non solo che, grazie alla normativa in vigore, il lavoratore o la lavoratrice che ha deciso di cambiare sesso non può, per il solo fatto di averlo cambiato, essere licenziato, demansionato o, più in generale, trattato in modo meno favorevole, ma che tali tutele sono state rese maggiormente effettive da alcuni interventi legislativi in ambito di ripartizione dell’onere probatorio”.
Infatti, prosegue l’avvocato Codella “in tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso, l’art. 40, del D. Lgs. n. 198 del 2006, stabilisce (perlomeno) un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente. In altre parole, il lavoratore o la lavoratrice che ha cambiato sesso è onerato di dimostrare di essere titolare di un fattore di discriminazione e di avere subito un trattamento svantaggioso in connessione con detto fattore e tale connessione può essere eccepita anche solo in via presuntiva. Non serve che il lavoratore o la lavoratrice fornisca una prova piena della discriminazione, ma basta che dimostri elementi concreti, anche indiretti (per esempio: statistiche interne, email, trattamenti differenziati, dichiarazioni, comportamenti sospetti), che permettano di presumere che ci sia stata una violazione del principio di parità. A quel punto, spetta al datore di lavoro dimostrare l’assenza di discriminazione”.
Buone pratiche per un ambiente inclusivo
L’intervento dell’HR è fondamentale dai primissimi step del processo di transizione sessuale, sia per valutare una possibile variazione temporanea nelle mansioni del dipendente sia per favorire la creazione di un ambiente di lavoro rispettoso e inclusivo.
A tal proposito, c’è una serie di “accorgimenti” che sicuramente potrebbero contribuire a gestire il passaggio senza spiacevoli situazioni di ostilità o micro violenza. A iniziare dalla decisione di consentire l’uso di un nome corrispondente al genere di elezione su badge, email e documenti interni già prima che la transizione sia portata a compimento.
Utile – e forse fondamentale – è l’organizzazione di corsi di sensibilizzazione sull’identità di genere e sulle tematiche LGBTQ+ per tutto il personale, oltre a implementare regolamenti aziendali che vietino espressamente qualsiasi forma di discriminazione basata sull’identità di genere.