Dalla competitività alla ridondanza. Necessario “proteggere” il lavoro.

Intervista a Massimiliano Valerii, direttore del Censis, sui cambiamenti in atto nella società globalizzata e sul lavoro che ha perso valore. «Bisogna agire sul cuneo fiscale e non comprimere i salari per la competitività. Oggi si guadagna meno di 30 anni fa. Ci sarà una globalizzazione con nuovi paradigmi».

massimiliano valeriii

Da più di mezzo secolo, 56 anni per la precisione, il rapporto Censis indaga i principali cambiamenti della società italiana. Un osservatorio privilegiato anche sul lavoro. Qualche numero per fotografare lo stato attuale e i nodi da sciogliere: fine della moderazione salariale (inflazione 2022 sopra l’8% e retribuzioni contrattuali del lavoro dipendente a tempo pieno in crescita dello 0,7%), tempi lunghi di rinnovo contrattuale (6,3 milioni i dipendenti con contratto scaduto, di cui 3,5 milioni nel privato e 2,8 nel pubblico). Ma oltre i numeri ci sono tendenze che incrociano lo scenario globale, le diverse crisi in corso, i nuovi paradigmi dell’economia mondiale.

Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis, cosa sta succedendo al lavoro e nel mondo del lavoro? Ci può dare qualche highlights?

«Intanto registriamo un aumento degli occupati: al terzo trimestre 2022 c’è stato un aumento dell’1,1% rispetto alla buona crescita registrata nello stesso periodo del 2021. Il recupero rispetto al 2020 quindi c’è stato, ma oltre i numeri è necessario fare una riflessione di lungo periodo».

In che direzione?

«Non dobbiamo solo pensare alla quantità dell’occupazione, è importante la qualità. Veniamo da un lungo periodo in cui le retribuzioni sono state il principale fattore di costo su cui si è agito per garantire la competitività delle imprese. È eclatante il dato che emerge da una comparazione delle retribuzione medie lorde negli ultimi 30 anni (1990-2020): l’Italia è l’unico Paese dell’area Ocse che ha registrato un calo, di quasi  tre punti,  in termini reali delle retribuzioni. In Francia e Germania sono aumentate di oltre 30 punti, in Uk di oltre 40…».

A cosa è dovuto questo guadagnare meno rispetto a trent’anni fa?

«In questo periodo la nostra parola d’ordine è stata competitività, diventarlo sempre più per integrarci nelle catene globali del valore. Per il sistema produttivo era difficile agire su altre leve, e penso al tema fiscale o alla burocrazia ipertrofica, per questo si è agito sulle retribuzioni».

Che effetti ci sono stati?

«Per certi versi positivi: le nostre esportazioni sono cresciute sempre, anche durante le crisi, e il made in Italy si è affermato nel mondo. Ma c’è il rovescio della medaglia: la depressione della domanda interna e dei consumi delle famiglie, ancora al di sotto dei valori precedenti la grande crisi del 2008. Pensando soprattutto ai giovani, che sono stati i più colpiti, se il lavoro non garantisce reddito o non risponde alle aspettative esistenziali di ognuno, perde valore. Qui c’è il link tra l’impatto economico e la dimensione sociale: dobbiamo scordarci il Cipputi che si identificava nel lavoro e confrontarci con chi si chiede a cosa serve il lavoro se non garantisce reddito, identità, progressione sociale. Sta in questo la disaffezione dei giovani, quella che giornalisticamente è stata chiamata la great resignation. Non è una tendenza new age, per dirla con una battuta, ma la presa d’atto che nel lavoro di oggi non c’è qualità, nei termini che ho cercato di spiegare».

È tutta la pubblicistica sui giovani che non vogliono più lavorare, fare sacrifici, hanno il reddito di cittadinanza…

«Fatti mediatici… I dati ci dicono che le dimissioni sono un fenomeno strutturalmente in aumento da prima del Covid e la crescita è in diretta correlazione con l’aumento di posizioni lavorative atipiche e a termine. Ad aprile 2022 si è toccato il record di lavori a termine, 3,1 milioni, da quando abbiamo serie storiche confrontabili. I giovani passano da un posto all’altro, anche con dimissioni volontarie, per migliorare la propria posizione».

Se competitività è stata la parola degli ultimi 30 anni, come vede il futuro?

«Innanzitutto bisognerà capire cosa accadrà nel mondo: sta cambiando il paradigma della globalizzazione accelerata. Da noi se ne discute poco, ma sul Financial Times, da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, si parla tutti i giorni dell’avvento di un mondo “post neo liberista”, che porta con sé l’idea di una deglobalizzazione o friend shoring, cioè il limitare gli scambi e le catene globali del valore dentro un perimetro che è definito dagli Stati che condividono con noi valori di democrazia e libertà. Ci si è resi conto che la globalizzazione non ha prodotto omogeneità di valori e libertà nel mondo e la Cina ne è la dimostrazione. I prossimi trent’anni della globalizzazione avranno un paradigma diverso da quello che abbiamo conosciuto negli ultimi trenta».

Che effetti sociali avrà questo processo? Cosa cambierà?

«Ci siamo resi conto che l’attuale globalizzazione crea un’ampia fascia di esclusi, i forgotten man di Trump, che hanno cambiato anche la domanda politica generando populismi e chiedendo maggiore protezione sociale. E sulla protezione, penso ai dazi sui prodotti cinesi, non c’è differenza tra Trump e Biden, segno che la politica ha recepito queste richieste. Nella fase nuova la parola competitività verrà sostituita, io dico, da ridondanza».

In che senso?

«Ci siamo scoperti molto vulnerabili sulle importazioni strategiche, materie prime ed energia in primis. Il rendersi conto, da un giorno all’altro, di dipendere da altri paesi è stato uno choc… La ridondanza, termine informatico che indica due sistemi che fanno la stessa cosa, vuol dire maggiore protezione e minore vulnerabilità e dipendenza».

E il lavoro come entra in questo contesto?

«La domanda di maggiore protezione riguarda anche  lavoro e  salari. L’export cresce ma rappresenta solo un terzo del Pil italiano, non possiamo andare avanti con la competitività a tutti i costi perché gli effetti li abbiamo visti: crescita stentata dovuta a bassa domanda interna per effetto delle retribuzioni in calo e lavoro che non garantisce più mobilità ascensionale. Nei prossimi trent’anni vedo un rapporto diverso con il lavoro rispetto a quanto abbiamo visto finora».

Politica e lavoro, come vede il rapporto?

«Penso che la politica abbia assecondato il processo di cui parlavo prima. Basti pensare alle tante misure che hanno creato flessibilità,  ma si sta sempre più facendo strada l’idea di alleggerire la pressione fiscale sul lavoro e non comprimere i salari perché l’illusione di fare crescita agganciando i flussi globali è finita quando ci siamo resi conto che dietro avevamo lasciato territori sguarniti e depressi.  La riduzione del cuneo fiscale sarà il vero tema della prossima stagione e siamo all’inizio di questa nuova fase».

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