(Very) remote working, il fenomeno dei nomadi digitali nel post pandemia

Con la pandemia e lo sdoganamento del lavoro agile c’è chi ha pensato di sfruttarne appieno le potenzialità. Senza più confini fisici ai quali rimanere legati, molti lavoratori hanno svolto le proprie mansioni da spiagge tropicali o rifugi in montagna. Unico requisito: una rete wi-fi. Si chiamano ‘nomadi digitali’ e, secondo il Secondo Rapporto sul nomadismo digitale in Italia, realizzato dall’Associazione italiana nomadi digitali in collaborazione con Airbnb, sono per il 52% dipendenti di aziende. Ecco come vivono, producono e impattano sulle economie dei Paesi ospitanti.

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Ormai che lo smart working è entrato nel new normal di molti lavoratori – e di molte aziende – come opzione da scegliere e non come imposizione da subire e che lo spettro del lockdown sembra solo un lontano ricordo, sono molti coloro che proprio approfittando della flessibilità data dall’assenza di un ufficio fisso hanno scelto di vivere per vari mesi all’anno in posti diversi del mondo, preferibilmente vacanzieri, come confermano i numeri di un’indagine condotta da Mbo Partners, società statunitense che aiuta i lavoratori in proprio con la stipula dei contratti: se infatti nel 2019 erano “appena” 7,3 milioni le persone nel mondo che conducevano una vita da nomadi digitali, nel 2022 il dato sale a 16,9 milioni di persone che lavorano da remoto viaggiando per lunghi periodi di tempo.

Ovviamente, il nomadismo digitale è accessibile soltanto a chi ha un lavoro che si presta a essere svolto totalmente da remoto – dai programmatori ai social media manager, dai designer agli scrittori dai blogger ai fotografi e alle altre figure “creative” legate al digitale – e infatti solo una minima parte hanno un contratto full o part-time per una o più aziende: la maggior parte lavora in proprio.

Un mito da sfatare

Se nell’immaginario comune il nomade digitale è perennemente in vacanza e lavora da una spiaggia tropicale, la realtà è differente e i contro – sia di carattere individuale sia sociale – di questo stile di vita non sono da sottovalutare.

Innanzitutto, ça va sans dire, viaggiare costa, anche se si opta per Paesi il cui costo della vita è inferiore al nostro; ci sono poi problemi di carattere burocratico: dai passaporti in scadenza ai visti da richiedere, che spesso limitano la durata del soggiorno, anche se dopo la pandemia sono numerosi i Paesi che hanno iniziato a offrire visti lavorativi temporanei alle persone straniere che possono lavorare da remoto.

Dal punto di vista psicologico, invece, bisogna essere preparati a periodi di solitudine – a meno che non si abbia la fortuna di abbracciare il nuovo stile di vita in coppia –, non farsi spaventare da tutto ciò che è nuovo e imparare a gestire l’instabilità del continuo cambio di dimora, ma anche le problematiche improvvise che potrebbero ostacolare il flusso lavorativo (banalmente, in diversi Paesi extra Ue le connessioni Internet non sono propriamente regolari e veloci).

Infine, come ha raccontato Nicholas Barang, blogger e da oltre dieci anni nomade digitale, «Lavorare su una spiaggia non è qualcosa che la gente fa davvero. Le tue cose si rovinerebbero con la sabbia e con l’aria di mare. Il bagliore del sole renderebbe difficile vedere lo schermo e, soprattutto, amache, lettini e asciugamani stesi sulla sabbia non sono luoghi comodi da cui lavorare».

Italia, patria dei digital nomad

Per quanto riguarda l’appeal dell’Italia agli occhi dei nomadi digitali stranieri, sono interessanti i numeri emersi dal secondo “Rapporto sul Nomadismo Digitale in Italia”, basati sui dati raccolti da un sondaggio internazionale realizzato a marzo 2022 dall’Associazione Italiana Nomadi Digitali con il contributo di Airbnb, al quale hanno risposto oltre 2.200 remote worker e nomadi digitali provenienti da Paesi diversi.

Il 46% dei lavoratori da remoto intervistati – appartenenti principalmente al mondo della comunicazione, dell’insegnamento e dell’information technology – ha già fatto esperienze di nomadismo digitale, mentre il restante 54% dichiara di volerlo fare nel prossimo futuro. Tra i professionisti che hanno già sperimentato il nomadismo digitale, il 52% sono dipendenti o collaboratori di aziende e hanno un livello di istruzione alto: il 42% ha una laurea e il 31% ha addirittura un master o un dottorato.

Per quanto riguarda la percezione dell’Italia, il Belpaese risulta una destinazione attraente agli occhi di remote worker e nomadi digitali: il 43% degli intervistati sceglierebbe il Sud Italia e le isole come propria sede, il 14% opterebbe per il Centro Italia e solo il 10% si stabilirebbe in Nord Italia.

Andando nel dettaglio, il 93% degli intervistati ha poi affermato di essere interessato a vivere la propria esperienza da nomade digitale soggiornando per periodi di tempo variabili in piccoli comuni e borghi dei territori marginali e delle aree interne della Penisola, considerati luoghi dove la qualità della vita è migliore rispetto ai grandi centri urbani.

Per quanto attiene la durata dell’esperienza, il 42% dei remote worker e nomadi digitali interpellati è interessato a soggiornare in Italia per periodi che variano da uno a tre mesi, il 25% da tre a sei mesi, mentre il 20% sarebbe disposto a fermarsi anche per più tempo.

Interessanti anche i dati sulle strutture abitative preferite da remote worker e nomadi digitali: il 73% predilige appartamenti e case in affitto, seguiti dai bed & breakfast e, in crescita, dalle strutture di coliving.

La relazione con il territorio

Non di solo lavoro vive il digital nomad, ma anche di interazioni con la popolazione locale e di scoperta del territorio: tra le attività che “i cittadini temporanei” vorrebbero maggiormente sperimentare sui territori, al primo posto figurano gli eventi culturali e quelli enogastronomici (circa il 55% degli intervistati), seguiti dalle attività a contatto con la natura (51%) e dalla possibilità di vivere esperienze autentiche e caratteristiche di quel territorio (40%); e poi, ancora, il 37% degli intervistati vorrebbe partecipare ad attività di socializzazione con la comunità locale e con altri nomadi digitali, mentre il 36% preferirebbe attività legate al benessere personale.

Rilevanti, infine, i fattori che sono emersi dall’indagine come irrinunciabili per i remote worker che vorrebbero vivere un’esperienza di nomadismo digitale in Italia e che influenzano la loro scelta della destinazione: la qualità della connessione internet, il rapporto tra i costi della vita e le loro esigenze, l’offerta di attività culturali e la possibilità di sperimentare le tradizioni locali. Inoltre, il 52% degli intervistati ritiene importante usufruire di convenzioni con attività e servizi locali (come ristoranti, bar, palestre, lavanderie).

Infine, il 46% dei remote worker stranieri che hanno già fatto un’esperienza di nomadismo digitale nel nostro Paese, ne danno una valutazione molto positiva e il voto medio finale è 6,9.

 

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