«Estraniazione dal lavoro e fame di reddito»: ecco la condizione dei lavoratori fotografata dal 5° Rapporto Censis-Eudaimon

Alberto Perfumo, Ad di Eudaimon: «Il welfare aziendale può permettere di ritrovare la motivazione»

perfumo

I lavoratori italiani hanno «fame di reddito», vivono una condizione di «estraniazione dal lavoro nel lavoro» e hanno paura del futuro e della cosiddetta “normalità”. È una fotografia impietosa quella registrata dal Censis nel 5° Rapporto sul welfare aziendale realizzato con Eudaimon, presentato martedì 9 marzo da Francesco Maietta, responsabile delle Politiche sociali del Censis, Alberto Perfumo, amministratore delegato di Eudaimon, Pierangelo Albini, direttore dell’area lavoro, welfare e capitale umano di Confindustria, Andrea Bianchi, segretario generale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali, Andrea Cuccello, segretario confederale della Cisl, Marco Leonardi, capo del Dipartimento della programmazione economica della Presidenza del consiglio dei ministri, Susy Matrisciano, presidente della XI commissione permanente (Lavoro pubblico e privato) del Senato della repubblica, e Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis.

A due anni dall’inizio della pandemia, la presentazione del Rapporto è stata occasione per mettere a fuoco lo stato dell’arte e ragionare sulla percezione che le persone hanno della propria condizione lavorativa. Il dato sulla retribuzione salta immediatamente agli occhi: il 58,1% dei lavoratori – soprattutto la classe impiegatizia e quella operaia, meno i livelli dirigenziali – ritiene di essere poco retribuito. E non sbaglia, se si fa un confronto con altri Paesi: se in Italia negli ultimi 20 anni i redditi medi sono scesi del 3,6%, in Francia e Germania sono saliti del 17,9 e del 17,5%.

Perfumo, nel rapporto si legge che “le persone non scappano dalle aziende, ma ci sopravvivono come fosse una necessità ineludibile, di cui minimizzare senso e impatto sulla propria vita”. Cosa sta succedendo?

«La pandemia ha accelerato trend e situazioni latenti. Noi siamo partiti dal dato relativo all’insoddisfazione: l’82,3% dei lavoratori ritiene di meritare di più dal punto di vista della retribuzione. A fronte di questa insoddisfazione, l’uscita dalla pandemia porta con sé ciò che il Censis definisce “voglia di tornare a vivere” e questo conflitto tra fame di vita e insoddisfazione professionale sta mettendo effettivamente un po’ in crisi il rapporto delle persone col lavoro.

Le dimissioni sono cresciute rispetto al 2019: è vero che nel 2020 il mercato si è bloccato totalmente, registrando un picco negativo di dimissioni (-20%), ma è anche vero che nel 2021 questo numero è risalito del 29,7%. Se il dato è in parte fisiologico, perché – come ha ricordato Albini – in media una persona su dieci cambia volontariamente lavoro nel corso dell’anno, si conferma comunque un trend di crescita sul lungo periodo. Tutto questo accade in un contesto, quello italiano, in cui tendenzialmente le persone non si dimettono facilmente e difficilmente si spostano per lavorare, a meno che non si parli di giovani molto esperti che operano in un’area a grande richiesta di figure innovative».

Quindi, ciò che il Censis chiama “estraniazione dal lavoro nel lavoro” è la fotografia di questa situazione in qualche modo contraddittoria?

«Esattamente. Le persone non si aspettano granché dal lavoro, ma comunque se lo tengono stretto, senza trasporto: nonostante le dimissioni siano aumentate, infatti, un 56,2% degli occupati non è propenso a lasciare il proprio lavoro, nella convinzione che non troverebbe un impiego migliore. Questo è uno dei punti su cui interrogarci. La pandemia, insomma, con lo shock che ha prodotto, ha in qualche modo reso consapevoli le persone del proprio deficit motivazionale. Questa situazione, senz’altro spiacevole, è comunque sfidante per le aziende. In una società come la nostra, dove il lavoro ha un ruolo importante, sapere che le persone non contano di realizzarsi in ambito lavorativo è un problema».

In questo contesto come interviene il welfare aziendale?

«Ha le carte in regola per agire su tutte le dimensioni di crisi che in qualche modo riguardano i lavoratori. Ad oggi sono consolidati due ambiti di intervento: il sostegno al reddito e la protezione di carattere sociale. Il terzo ambito è quello motivazionale. È chiaro che welfare è un buon integratore per le imprese: non ha il cuneo fiscale contributivo e quindi questo ruolo lo svolge egregiamente. Però ciò che diciamo sempre alle imprese è di fare attenzione, perché il welfare non può sostituire il reddito. La “fame di reddito” resta, come sottolinea il Censis. Tuttavia, all’interno dei sistemi di welfare si trovano le risposte e le soluzioni a certe domande che riguardano ad esempio i servizi di carattere sanitario e previdenziale, scolastici, l’assistenza sociale. Però occorre anche ricordare che la protezione sociale non è prevista in tutti i piani di welfare; più scontata, invece, è la parte che riguarda il supporto al reddito. Diciamo che, in generale, le aziende sono concentrate soprattutto su un welfare che riguardi aspetti esecutivi, ma ci si è meno preoccupati di quello che sta a monte. Il lavoratore così accede al welfare aziendale spesso in maniera piuttosto disinformata e anche poco consapevole: non sempre sa a quale tipo di esigenza il welfare può fare fronte, a quali necessità personali specifiche.

Ecco, io chiamo questo pezzo il welfare dell’on-boarding: si offre alle persone, ai giovani in primis, un servizio informativo su quali tipi di welfare sono disponibili e per quali obiettivi e necessità, che talvolta non sono ancora nemmeno così chiare ai lavoratori stessi. Una volta data l’informazione, il lavoratore può accedere direttamente al servizio, oppure può ancora aver bisogno di un accompagnamento. E questo è ciò che noi chiamiamo welfare coach. Le persone possono avere bisogno di qualcuno che decodifichi la loro necessità e che trovi la soluzione più adatta».

Soluzione che può anche risiedere in un soggetto terzo…

«Sì, potrebbe anche essere un soggetto pubblico. A volte la soluzione può in realtà stare in un mix. Ad una fase di orientamento e di guida potrebbe seguire un welfare che consta di più componenti: uno pubblico, uno aziendale, uno privato, ad esempio. Da operatore specializzato credo che, dopo che le aziende per anni si sono concentrate sulla parte esecutiva, è tempo di offrire servizi che rispondano al bisogno emerso dalla ricerca del Censis, ovvero l’insoddisfazione delle persone che “chiedono” di essere riconosciute come interlocutori importanti per il funzionamento dell’azienda stessa. Se si riesce a far percepire ai collaboratori questa attenzione nei loro confronti, li si fa sentire come pezzi della comunità aziendale che partecipano, ritrovando la motivazione di cui si parlava all’inizio e che è venuta a mancare. Questo è il terzo ambito di azione del welfare e riguarda un piano più psicologico e l’ingaggio per aiutare le persone ad uscire dall’estraniazione dal lavoro».

Può bastare questo tipo di intervento, se continua a mancare la parte retributiva?

«Albini ha ricordato che se si chiede alle persone se dovrebbero essere pagate di più, ovviamente risponderanno affermativamente nella maggioranza dei casi. Ciò, però, non toglie che il discrimine con altri Paesi esista. Si tratta di capire, da parte dell’azienda, dove pende l’asticella tra la richiesta di una maggiore attenzione e quella di una maggiore retribuzione».

I numeri sono molto chiari: la retribuzione in Italia è scesa e in altri Paesi è salita notevolmente negli anni…

«La riforma nel 2016 ha segnato una forte accelerazione del welfare aziendale. Marco Leonardi, che con noi ha commentato il Rapporto, è stato uno degli artefici di quella riforma contenuta nella Legge di stabilità del 2016. Su questo tema ha anche scritto un libro, Le riforme dimezzate, dove parla di un problema di retribuzioni ferme in Italia da decenni. Non sapendo come modificare il trend senza incidere più di tanto sul costo del lavoro, si è optato per costruire una parte di retribuzione non gravata da tasse e contributi, a cui si sono poi associati dei contenuti veri e propri di welfare. Ma la mossa iniziale è stata la riflessione sulla retribuzione, appunto. Sono passati altri sei anni da quella riforma e possiamo dire che non è sufficiente. Io non credo che il welfare aziendale possa dare il massimo come integratore del reddito: può essere uno strumento efficiente per trasferire risorse, ma non possiamo considerarlo come strumento retributivo agevolato. Ricordiamoci che i premi medi annui valgono mille euro. Sono consapevole che sia molto complicato trovare una soluzione al problema della retribuzione, ma deve essere chiaro che il welfare non può essere un sostituto. La retribuzione è “un fattore igienico”».

Cosa significa?

«Se io ho mal di pancia non mi si può dare una caramella. Il mal di pancia resta».

Perché le persone hanno ansia di tornare alla normalità?

«Nessuno sa più esattamente cosa sia la normalità: è lo smart working, il lavoro ibrido, tornare in presenza? Ognuno di noi potrebbe dare risposte diverse. Viviamo in uno scenario che cambia continuamente. La pandemia, i contagi che calano, si rialzano, adesso la guerra in Ucraina. Siamo continuamente sotto stress perché non siamo abituati a convivere senza punti di riferimento precisi. E le aziende vivono situazioni diverse l’una dall’altra e fanno considerazioni diverse. Ci sono aziende che ci raccontano di aver risparmiato 80 milioni in trasferte: è un bene, non lo è, lo è nel medio o lungo periodo? Bisogna abituarsi a vivere in una situazione più fluida».

Che ruolo può avere il Governo?

«Nel corso della presentazione del Rapporto – ma lo stesso è accaduto anche in occasione dell’iniziativa Officina Risorse Umane, nella quale ci siamo messi al tavolo con esponenti istituzionali e alcuni dei più influenti direttori delle risorse umane in Italia – abbiamo sottolineato che sarebbe bene avere un indirizzo sul welfare aziendale: individuare cosa è più utile e lì mettere risorse. Sono le donne, i giovani, la conciliazione casa-lavoro? Le attese sul Pnrr sono forti. Ora c’è anche una guerra vicina e ci auguriamo che comunque si riescano a fare queste riflessioni».

Qual è l’opinione degli HR circa gli ambiti di intervento necessari?

«In generale chi si occupa di risorse umane ritiene che il welfare aziendale sia una priorità (62,5%), che siano importanti le componenti di welfare aziendale sociale (salute, malattia e non autosufficienza, cura e gestione dei figli) e che siano utili altresì attività di accompagnamento dei lavoratori al welfare aziendale, per informarli, supportarli nell’identificare i bisogni e orientarli sui servizi (71,9%). Infine è abbastanza unanime l’opinione che servirebbero maggiori benefici fiscali (93,8%)».

error

Condividi Hr Link