Fare la differenza con il personal branding

Distinguersi e farsi ricordare – ovvero essere rilevanti in una fase storica in cui ognuno di noi è bombardato da informazioni – è fondamentale per il successo professionale, a tutti i livelli e anche per chi ha già un lavoro. Ne abbiamo parlato con Luigi Centenaro, pioniere in Italia del personal branding: ciò che serve è avere una strategia

personal branding

Personal branding, chi era costui?

Uno strumento sempre più importante: nell’era dell’overload informativo, distinguersi è fondamentale. Soprattutto per il lavoro e per la carriera.

Ne abbiamo parlato con Luigi Centenaro: docente, imprenditore, consulente e pioniere del settore in Italia. Colui che ha ideato il Personal Branding Canvas, un metodo pratico per sviluppare il proprio personal brand, gratuito, tradotto in diverse lingue e utilizzato da università e migliaia di persone.

Sul suo sito una frase di qualche anno fa, che colpisce per la sua attualità:
Credo che uno dei problemi del nostro paese sia che le persone peggiori sono le più visibili”.

Centenaro, andiamo all’origine. Cos’è il personal branding?

«Lavoro sul tema da tanti anni e nel corso del tempo ho affinato la definizione. Quella che, al tempo stesso, è la più semplice e accurata, è questa: il personal branding è la gestione in maniera strategica della propria immagine professionale. L’obiettivo del personal branding è quello di rendersi memorabili e riconoscibili, attirando così nuove opportunità».

Le parole chiave sono gestione e strategia…

«Sì, gestire, analizzare e anche modificare, ma con un obiettivo e una strategia per raggiungerlo. Chi osserva deve sapere chi sei, perché sei utile, cosa sai fare, deve distinguerti dagli altri per poterti scegliere. Chi riesce a fare questo sta facendo personal branding».

Non basta stare sui social network, avere un profilo Linkedin o un blog…

«Il tema nasce molto prima dei social: il mio primo libro “Personal branding”, edito da Hoepli e poi dal Sole 24 Ore, è stato scritto tra 2008 e 2009. A quell’epoca eravamo agli albori dei social network eppure l’argomento personal branding era già noto e dibattuto. Oggi, dove tutto è a un clic di distanza, la sfida non è saper usare bene LinkedIn, ma sapere cosa scrivere per posizionarsi rispetto agli altri milioni di profili. Internet è uno strumento fantastico per il personal branding, ma al centro c’è sempre la stessa strategia: essere rilevanti».

Chi sono i potenziali interessati al personal branding?

«Tutti possono essere interessati: anche chi cerca lavoro e deve fare un “tradizionale” colloquio di lavoro ha tutto l’interesse che il selezionatore si ricordi di lui e lo consideri la persona giusta per una determinata posizione. Lo stesso vale per i professionisti e tutti coloro che vivono della loro immagine, ad esempio gli artisti e gli sportivi di alto livello. Non vi nascondo che ci sono situazioni in cui il personal branding serve a poco, penso alle selezioni dei concorsi pubblici, ma è sicuramente fondamentale per tutti quelli che hanno a che fare con contesti competitivi».

Chi ha già un lavoro ne può fare a meno?

«Non è proprio così: il personal branding è uno strumento utile per i lavoratori e i manager per crescere nell’azienda in cui lavorano o vogliono rappresentarla all’esterno. Pensiamo ai programmi di employer branding basati sui Brand Ambassador. Sul tema sto proprio preparando una nuova pubblicazione di cui darò presto annuncio».

Al recruiter basta osservare come una persona si racconta per selezionarla?

«Il buon recruiter è un professionista che “va al vedo”, controlla fino a fondo. Ma una volta verificate le informazioni diventa un prezioso alleato dei candidati idonei. Il suo mestiere è in certo senso quello di fare “personal branding al contrario” dei candidati: lo scopo  è quello di metterli in una short list presentabile e comprensibile dagli hiring manager».

Il personal branding riguarda anche i cosiddetti c-level?

«Sicuramente. Oggi infatti si parla anche di ceo branding o executive branding ed è una pratica molto diffusa, un valore per le persone coinvolte e per l’impresa. Questi top manager aiutano, in forza del proprio brand personale, a posizionare l’azienda in cui stanno operando: non sono rari i casi di aziende identificate nei loro top manager. A cui i media possono far riferimento per interviste o citazioni e comunque con grande giovamento a livello di employer branding».

Quali sono gli errori da non commettere assolutamente?

«Con un gioco di parole, direi, che la prima cosa da evitare è fare “personal bragging” (vantarsi, ndr). Chi lo fa non genera sicuramente un’emozione positiva. Poi non limitarsi a una ricerca di visibilità fine a se stessa, magari anche sbagliando il pubblico al quale ci si rivolge. Non c’è niente di peggio di essere chiamati per la posizione errata! Una buona strategia, costruita con attenzione e magari con il supporto di professionisti, aiuta a non commettere errori».

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